9 giugno 2013

Holy Motors

Spiazza, confonde, fa riflettere e non si lascia andare ad inutili sentimentalismi da grande pubblico. Un film che può definirsi tale. E dopo questa carrellata di parole facili e di critica banale, andiamo a stendere questa piccola recensione su Holy Motors, per quanto possa esserne capace. Perché il film di Leos Carax non parla, non spiega, ma narra a chi vuole lasciarsi coinvolgere da una storia iperrealistica e grottesca. Chiave interpretativa è Denis Lavant, protagonista e interprete di numerosi differenti personaggi in cerca non di un autore, ma di un pubblico, o meglio, di un media che dia loro la conoscenza di essere ripresi e di arrivare quindi a qualche spettatore. Ma per Oscar anche questo passa in secondo piano, perché la sua recitazione (qualora sia un attore, non ci è dato saperlo con precisione) deriva da una pura e semplice passione viscerale verso il suo mestiere che, col passare di un tempo non meglio specificato, si è evoluto fino a diventare un frenetico passaggio da un ruolo all'altro all'interno di una vettura pilotata dalla sola figura concreta, unica ancora di salvezza per il protagonista e unico modo che ha lo spettatore per distinguere quale sia la realtà e quale la recitazione.
Oscar non ha un vita vera, o se così fosse non ci viene specificato, poiché la sua dedizione all'interpretare è completa e lo fa passare da una famiglia ad un'altra senza troppi complimenti, quasi come non esistesse nemmeno un vero e proprio Oscar (nome particolare e non casuale, a ricordare l'ambita statuetta, ma anche secondo nome del regista, a ricordare la componente autoreferenziale del film) che, come il cinema, è in continuo mutamento è non ha una solidità riconoscibile alla quale aggrapparsi, perché viene sballottato da una storia all'altra (reale? Surreale? Finzione? Verità?) senza che ci siano appigli per lui o per chi guarda, ammesso e non concesso che qualcuno stia guardando realmente. Tante domande che Leos Carax decide volutamente di lasciare senza risposta per sottolineare uno spaccato destabilizzante di una realtà sempre più virtuale, sempre più fugace e sempre più nebbiosa, priva di appigli, di stabilità, di relazioni interpersonali concrete (si pensi all'episodio di Eva Grace impersonata da Kylie Minogue, una cantante che interpreta un'attrice che interpreta un personaggio, emblema ancor più marcato di questa instabile contemporaneità, ma è da citare anche il rapporto con la sua autista, quasi sempre filtrato da vetri e schermi), inglobata da quella società metropolitana che Georg Simmel aveva appena accennato e che Walter Benjamin aveva descritto in maniera più marcata ma pur sempre solo abbozzato. Carax recupera un discorso sociologico concentrandosi su una sola persona di cui non sappiamo e non sapremo mai niente, ma di cui non ci importa comunque nulla, perché Oscar diventa quasi subito metafora di un mondo contemporaneo destinato ad una fine simile, dove tutto muta e al quale tutti si devono adeguare per poter sopravvivere. Avvolti quasi sempre da un simbolico nero che fa da pseudo-sfondo ad una realtà incomprensibile e indistinguibile, gli interpreti del sadico gioco di Holy Motors si limitano ad interpretare i loro ruoli e a concludere la loro giornata di lavoro, chi tornando a casa da una famiglia di primati (vera? finta?), chi parcheggiando la propria limousine da lavoro e andandosene verso chi sa dove, non prima però di avere indossato una maschera completamente anonima, che impedisce di distinguere le persone, mentre le automobili parcheggiate ci ricordano che prima o poi anche per loro, come per le vecchie tecnologie cinematografiche (si intravedono, all'interno del montaggio, alcuni frammenti dei primi esperimenti di fotografia in movimento dovuti ad Etienne-Jules Marey e al suo fucile fotografico, considerato il pioniere della cinematografia), arriverà il giorno della rottamazione e del dimenticatoio, sostituite da veicoli più moderni e pratici. Ci sarebbe ancora tanto da dire (qualche smacco alle produzioni contemporanee dedite a sequel e remake, l'occhiolino alla computer grafica, il filtro grezzo e sporco che rimanda alle vecchie pellicole ormai dimenticate), ma forse è meglio interrompere qui, perché Holy Motors è un film che non può essere raccontato ma che deve necessariamente essere visto affinché possa accendere questi meccanismi analitici in ogni singolo spettatore che vorrà stare a guardare, perché, citando uno dei personaggi che cita Goethe a sua volta, la bellezza è nell'occhio di guarda.


3 commenti:

  1. film da... oscar (se gli oscar premiassero davvero i migliori)

    RispondiElimina
  2. Visto ora. Destabilizzante, una delle cose più surreali e belle che io abbia mai visto!

    RispondiElimina
  3. Attore molto bravo, .......ma sfugge il senso del film
    Per me.... una cagata pazzesca...

    RispondiElimina