3 aprile 2013

Il Discorso del Re

Tra i titoli più discussi degli ultimi anni per i suoi apparentemente immeritati premi conferitigli innanzitutto dall'Academy ma anche da tante altre associazioni, Il Discorso del Re è stato capace di spaccare critica e pubblico come non succedeva da tempo, tanto da farsi affibbiare aggettivi che variano dal "furbo" al "capolavoro". Inutile dire che il mio pensiero appartiene alla seconda categoria per il semplice fatto che Tom Hooper riesce a donare uno suo stile ad una storia apparentemente piatta e già vista innumerevoli volte sul grande schermo, avvalendosi di un cast fenomenale a partire dall'istrionico co-protagonista Geoffrey Rush, pienamente in sintonia con il suo personaggio e perfettamente inserito nel contesto attorno a lui come anche la dolce e bella Helena Bonham Carter, che si scrolla di dosso tutti i variopinti make-up elaborati con il compagno Tim Burton e ritorna ad interpretare una fragile ed umana personalità che ha come qualità caratteristica quella di essere stata improvvisamente eletta regina.
Al centro di tutto c'è la performance magistrale (premiata con l'Oscar) di Colin Firth, perfetto nel ruolo di un re insicuro delle proprie potenzialità a causa del suo balbettio che porterà alla luce drammatici momenti presenti nel suo passato nascosti alla sua memoria, difetto di pronuncia enfatizzata nella fantastica sequenza d'apertura da un'eco ancor più disturbante di quanto non lo sia l'impeccabile interpretazione dell'attore. Non mancano i caratteristi come Timothy Spall ad impersonare Churchill o sir Michael Gambon nel ruolo di re Giorgio V, ma ciò che merita elogi a non finire è appunto la già citata accuratezza con la quale Hooper studia un piano di regia particolare e a tratti fastidioso proprio per creare una sensazione di inadeguatezza nei confronti del pubblico (cito per semplicità e al contempo efficacia lo scavalcamento di campo che apre il film e che anziché presentare il protagonista si concentra sul suo unico vero avversario, il minaccioso microfono radiofonico). Le inquadrature sballate e a tratti vuote vengono lentamente riempite nel corso del film e trovano la loro perfezione solo quando la storia è conclusa e il personaggio ha finalmente compreso ciò che egli stesso è. Nonostante l'impostazione tipicamente teatrale, Hooper è stato in grado di dimostrare ancora una volta (come già successo con Il maledetto United) di essere un grandissimo regista dalla sensibilità unica in grado di raccontare i propri personaggi senza snaturare la storia che essi si portano alle spalle né quella che si troveranno di fronte. Nota di merito anche al compositore Alexandre Desplat che qui riesce ad entrare in perfetta sintonia con lo stile dell'autore e che si rifà delle numerose "incompiute" (nel senso che molte sue composizioni non hanno convinto appieno) che ha scritto precedentemente. Di fronte a cotanta interessante struttura registica, ai magistrali attori britannici e alla spettacolare messa in scena allo stesso tempo intima e realistica, le piccole banalità della sceneggiatura scritta da David Seidler (come qualche dialogo buttato lì per creare pathos e strizzare l'occhio allo spettatore) passano in secondo piano e si rimane affascinati di fronte ad una storia semplice come questa, narrata nel più semplice dei modi e reperita dallo spettatore in una maniera altrettanto semplice, ma che alle spalle ha una lavoro registico complesso, riflettuto e personalizzato capace di fare conoscere Hooper non solo all'Academy (che lo premia con l'Oscar alla Miglior Regia), ma anche al grande pubblico mainstream. E se qualche ammiccamento e qualche passaggio semplice servono per portare il buon cinema nelle case di tutti, ben vengano entrambi.


4 commenti:

  1. Anche qui cerco di essere educato. Hooper non è un gran regista, come il mio amico Spielberg d'altronde, perché dirige da manuale, infatti il film, registicamente parlando, è ottimo (poi di questo ne sai molto di più tu, io non ho mai studiato un'acca di cinema, mi limito a guardarlo e assaporarlo come meglio posso), ma risulta senz'anima. Colin Firth, al di là della mia antipatia per lui, è stato più che bravo (quell'anno c'era anche quel mostro di Bridges nominato all'Oscar ne Il Grinta dei Coen e fosse stato per me l'avrei dato a quest'ultimo). Geoffrey Rush mi dice poco come attore, ma qui è ben inserito, come dici tu, e la Carter pure.
    Mio giudizio finale sul film: è una gran furbata che strizza l'occhio continuamente allo spettatore.

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    1. In molti la pensano così, ma trovo Hooper molto più personale e originale di Spielberg. Se l'avesse diretto Steven, Les Miserables sarebbe risultato il classico film facilone e americano. E il bambino non sarebbe morto. Per me Hooper è un grande regista capace di esternare la sensibilità del film con piani di regia ben pensati, piaccia o no dà un senso alle sue pellicole con le inquadrature che si sceglie. Non come l'ultimo di Bardem (I bambini di Cold Rock) che utilizzava dolly a caso, per farti capire cosa intendo.

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  2. non me ne intendo neanch'io di cinema,ma questo film mi è piaciuto, bello soprattutto il finale e come re Giorgio sconfigge la balbuzia

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    1. Molto personale e intrigante, alla faccia di chi ne vuole male. :)

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