8 novembre 2012

The Way Back


Questa volta il regista Peter Weir si concentra su una storia vera e si avventura nel continente orientale, passando per la Siberia, il Tibet e l’India, assieme ai protagonisti di questo fatto realmente accaduto. Dopo otto anni di assenza dalle sale cinematografiche, i più scettici avevano già dato Peter Weir come spacciato. Ma il regista riesce a dimostrare che, nonostante le nuove tecnologie e, soprattutto, la Computer Grafica, siano arrivate a livelli incredibili di perfezione e abbiano avuto il sopravvento su tutto il resto, il vecchio modo di fare cinema rimane comunque il più efficace e il più convincente.
Se la trama di The Way Back si basa su una storia vera, anche se un po’ romanzata, lo stile e la tecnica del film restano quelli che avevamo lasciato poco più di un lustro fa, ovvero il concentrarsi sui personaggi, sul tempo narrativo e sulla scelta di inquadrature. Weir ritorna alla grande e dirige un inno alla sopravvivenza in maniera magistrale, facendo in modo che la sua storia e le sue scelte riescano a coniugarsi completamente. Il simbolismo di questo racconto, che prende in esame una vicenda raccontata raramente, ovvero i crimini che i seguaci dello stalinismo commettevano e le condizioni a cui erano sottoposti i prigionieri, raggiunge livelli emotivi interessanti e sempre in crescendo, facendo in modo che il pubblico non si affezioni subito ai protagonisti, ma che comunque si immerga nella loro disavventura. Merito, questo, delle fantastiche ed emblematiche inquadrature sulla natura, una madre troppo severa con i suoi figli o troppo distratta per accorgersi di loro, i quali devono farsi forza l’un l’altro per poter arrivare alla destinazione prestabilita, condividendo una convivenza forzata nella disperata ricerca di un posto praticamente impossibile da raggiungere. È proprio questo senso di rapporti obbligati che riesce a fare tuffare lo spettatore all’interno di questa storia tragica e tristemente reale, ispirata al romanzo di Slavomir Rawicz. Ad aiutare l’immedesimazione di chi guarda la pellicola con i personaggi ci pensa la musica, o meglio, il repellente e spaventoso silenzio che accompagna i nostri “eroi” per quasi tutta la durata della pellicola, lasciando intendere che non c’è tempo per le canzoni e per i temi, ma bisogna pensare solo a sopravvivere e ad arrivare a destinazione. Attenzione, però, perché se da un lato il coinvolgimento emotivo è pieno e ottimo, dall’altro il ritmo lento, anzi, quasi statico, potrebbe annoiare quella fetta di pubblico che ama sequenze più serrate e rapide. Ma tengo a sottolineare che questa non è una carenza, anzi, un punto di forza. Questo lento proseguire della trama non fa altro che lasciare allo spettatore il tempo di riflettere su ogni piccola scelta registica e, quindi, di apprezzare ancora di più il minuzioso lavoro che Peter Weir ha voluto svolgere. Peccato, però, per un un-happy ending che, se da un lato se ne sente il bisogno dopo due ore di torture e angosce tra deserti e montagne, dall’altro risulta un po’ troppo frettoloso e rapido, al contrario di tutto il resto del film. Ma anche qui l’autore ha ben capito che la storia era conclusa, e che era bene lasciare al pubblico una patina agrodolce piuttosto che dilungarsi sull’unico lato semi-positivo di tutta la faccenda. In sostanza Peter Weir è tornato così come ci aveva abbandonato, come se non se ne fosse mai andato, pronto ancora una volta a dare il suo contributo al momento del cinema, facendolo in piena forma e rispolverando quel cinema simbolico e melodrammatico che sta comparendo sempre più sporadicamente nelle sale cinematografiche.


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