26 febbraio 2015

Reality

C'è e ci sarà sempre chi continuerà a sostenere che Gomorra è meglio, che Matteo Garrone con il suo precedente film ha raccontato di più e in maniera più perfetta uno spaccato di vita contemporanea e bla bla bla. Con Reality il regista torna nuovamente nei luoghi partenopei per parlare questa volta di una storia apparentemente meno scandalosa ma, se possibile, addirittura più universale di quella raccontata nel suo film precedente: è la storia di Luciano, pescivendolo come tanti, che prova ad entrare al Grande Fratello, facendo un provino quasi per gioco, il quale però cambierà radicalmente la sua vita, trascinandolo in un lento degrado da cui i parenti tenteranno di farlo uscire. Come con Gomorra, anche questa volta Garrone porta in scena un problema tutto contemporaneo, sociale e del quale tutti fingiamo di ignorare l'esistenza, ovvero la sindrome da GF, come la chiama Maria, la moglie di Luciano, prendendo in prestito le parole del medico che gliel'ha diagnosticata. In parole semplici: l'esserci, il partecipare (in questo caso al GF, ma più in generale ad ogni cosa che c'entri con una telecamera) diventa non solo importante, come ci ricorda il famoso motto, ma addirittura essenziale.
L'essere un personaggio si converte in una necessità primaria, in un pregio da sfruttare che allontana sempre di più l'individuo dalla realtà, portandolo alla stessa velocità verso quella che potremmo definire la realità, una realtà parallela filtrata da obiettivi e schermi grandi e piccoli, importante più dell'essere se stessi. Così assistiamo alla trasformazione di Aniello Arena, improbabile Totò (la somiglianza è sorprendente) che, se all'inizio della storia si divertiva a sfruttare la sua solarità e le sue capacità estroverse per far divertire la gente senza chissà quale ambizione, nel corso del suo cambiamento arriva ad immolarsi in tutti i modi pur di entrare nella casa del Grande Fratello, ed è fantastico notare come Garrone sovrapponga la fede con l'idolatria attraverso ironici e grotteschi dialoghi equivoci, dove se uno intende la televisione l'altro capisce Dio e viceversa, dove le offerte ai poveri non sono fatte per buon cuore cristiano ma perché le telecamere lo stanno spiando e Luciano vuole quindi comportarsi nel modo più giusto per far colpo sugli eventuali osservatori. Noi, inermi di fronte allo schermo, assistiamo a questo lento degrado interiore e, se in un primo momento possiamo dubitare anche a noi assieme al protagonista della casualità della presenza di due signore di Roma che vanno a comprare del pesce in un quartiere napoletano, più avanti, alla comparsa di quello strano grillo dentro la casa del protagonista, non abbiamo più incertezze: Luciano si è ormai perso in un mondo fittizio che non gli permette più di accontentarsi di ciò che gli sta intorno, lo estrania continuamente dalla realtà, lo allontana dai suoi affetti e fa in modo che si auto-imponga dei comportamenti che non sono i suoi, trasformandolo in un personaggio più che in una persona, il quale potrà sentirsi a suo agio solo nel momento in cui sarà entrato in quella Casa, davanti a quelle telecamere, girovagando all'interno di quelle mura e stendendosi in una sdraio luminescente del giardino. Un mondo alternativo attraente ed invitante, fatto di finzione e bugie, falsità e filtri; un concetto un po' retrò se lo si limita ai soli reality, qualcuno potrebbe pensare. Ma al giorno d'oggi quanti altri mondi alternativi abbiamo? Quanti altri filtri e finzioni ci attraggono, ci invitano, ci incuriosiscono e fanno parte di noi? In quanti modi possiamo trasformarci da persone a personaggi e diventare qualcun altro senza accorgercene? La realità diventa più importante della realtà giorno dopo giorno, e noi comprendiamo e assimiliamo il cambiamento senza poter fare niente, come i parenti e gli amici di Luciano.

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