Non c'è niente da fare, signori miei, David Cronenberg è sempre una conferma, una sicurezza, un baluardo saldo di ciò che dovrebbe essere il cinema: storia, ma anche critica, spettacolo prima di tutto ma anche riflessione (come diceva Sergio Leone). Maps to the Stars è quindi prima di tutto la storia di una famiglia piena di scheletri nell'armadio (e anche piena di armadi, visto il loro conto in banca, per cui immaginatevi gli scheletri!): madre e figlio star dello spettacolo, padre (John Cusack si fa perdonare quella dozzinale performance in The Raven già dal primo fotogramma) guaritore e figlia abbandonata al suo destino in un ospedale psichiatrico. Quest'ultima arriva ad Hollywood per fare ammenda, conosce un intrigante autista di limousine con il quale cerca di avere una storia. La trama poi si infittisce e si sviluppa in un continuo susseguirsi di eventi che metterà ogni singolo personaggio di fronte (letteralmente) ai propri fantasmi, vivi o morti che siano, ed ognuno di loro cercherà, inutilmente, di affrontarli e sconfiggerli.
Come al solito Cronenberg non vuole spiegare, non vuole darci un punto di vista da condividere né tanto meno vuole criticare: ancora una volta il canadese utilizza la telecamera come fosse uno strumento di verità, come se riesca a catturare in ogni movimento un pezzo della realtà che ci circonda. Così entriamo in empatia con Mia Wasikowska e il suo personaggio, una ragazza che ha commesso degli sbagli in passato e che vuole fare ammenda, vuole andare dalla sua famiglia e spiegare le motivazioni del suo gesto, cercando di ragionare assieme a loro, di parlare: niente da fare, il padre la caccia di casa, le dà dei soldi per andarsene e, nonostante la madre sia un pochino più disponibile al dialogo, neanche lei riesce a fare nulla per sistemare la situazione. Grottesco e crudo, questo prodotto ci mette di fronte alla crudeltà delle persone, facendo un passo indietro rispetto a Cosmopolis (anche cronologicamente, come se il precedente film fosse ambientato in un futuro molto più distopico e asettico), mostrando una realtà più vicina alla nostra dove le persone gioiscono dei lutti degli altri, immersi in un egoismo sfrenato e orripilante, a volte nervoso come quello della mamma della Wasikowska, con il suo compulsivo fumare, a volte calmo e pacato come quello del papà e della sua sigaretta elettronica, altre volte ossessivo come quello di Julianne Moore, mai così brava, ma anche infantile, ingenuo e forse il più sconvolgente come quello di Evan Birds, un po' specchio di una madre eccessivamente ambiziosa e un po' riflesso di una società di adolescenti sempre più interessati a loro stessi e al loro successo personale, ma mai totalmente irrecuperabili. Nonostante un paio di cadute di stile e qualche sviluppo frettoloso nella sceneggiatura ad opera di Bruce Wagner, il risultato finale è quello a cui Cronenberg ci ha sempre abituati: noi stessi, il nostro mondo e null'altro; uno spaccato malvagio, crudo, tenebroso, freddo, insensibile e pericolosamente vero.
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