22 agosto 2013

Brazil

Omaggiando, citando o, per meglio dire, rivisitando il 1984 di Orwelliana memoria, il regista britannico Terry Gilliam fonde il suo immaginario visivo ad una nuova storia futurista in cui la tecnologia la fa da padrona, spalleggiata da una democrazia puntigliosa, brutale e supponente. Brazil è quindi un viaggio romantico e disperato il cui protagonista è un Sam Lawly interpretato da Jonathan Pryce, persona umile e semplice, che ha il pregio di eccellere nel suo lavoro e il difetto di essere un sognatore recidivo: ogni volta che chiude gli occhi sogna sempre di essere un cavaliere alato senza macchia pronto a raggiungere la sua bella Kim Greist, cercando di superare tutti gli ostacoli che si frappongono tra loro due. Quando però incontra il corrispettivo reale della donna dei suoi sogni allora realtà e mondo onirico si sovrappongono in una scalata lavorativa che corrisponde ad una ripida discesa personale.
L'accettazione della sua promozione al solo scopo di scoprire informazioni criptate sulla ragazza è solo il primo di una lunga serie di problemi che si alterneranno tra sogno e realtà, permettendo all'autore di giocare con il cinema e con la sua macchina da presa, allestendo le sfide dell'immaginario di Lawly e le scenografie del mondo vero seguendo la sua tipica impostazione teatrale, giocando con lo spazio - il gigantismo delle sale d'ingresso a discapito dei piccoli cunicoli in cui sono costretti gli impiegati dei vari dipartimenti. Sebbene il piede dell'estetica del film sia calzato sul pedale del grottesco e del plastico a favore di una visione surreale e strettamente legata ai primissimi esperimenti di cinematografia (gli effetti speciali utilizzati da Gilliam sono gli stessi messi in gioco da Meliés anni prima e la sua messa in scena ricorda a tratti il Metropolis di Lang, per non parlare delle innumerevoli citazioni ai tanti generi, dai gangster movie al ben più diretto rimando a La Corazzata Potemkin), la sceneggiatura scritta dallo stesso regista assieme a Tom Stoppard e a Charles McKeown si sforza di mantenere un tono serioso e critico nei confronti della società che viene rappresentata: una società ai limiti del nazismo, dove la Statua della Verità ricorda che essere onesti rende liberi e dove la classe dirigente non sbaglia mai, ma è sempre qualcun altro a commettere l'errore (similmente al chirurgo plasico di Jack Purvis presentato in questo film, vittima delle complicazioni dovute ad una pelle troppo delicata della sua paziente). Se da un lato questa odissea onirica di un uomo nato libero ma schiacciato dal peso di ciò che lo circonda sembra riuscire nel suo obiettivo, dall'altro l'autore ci vuole ricordare che il lieto fine non esiste nella vita vera, che molto spesso è meglio scegliere di rimanere nel mondo dei sogni piuttosto che cozzare con la crudeltà della vita, rinchiusi e incatenati da quelle stesse persone che fino a qualche minuto prima ci volevano bene e ci raccomandavano agli altri solo per un piccolo disguido burocratico che non può essere ammesso da nessun ufficio. Con un Robert De Niro formidabile nelle vesti di un idraulico che vuole andare contro il sistema, senza dimenticare di citare il grande Bob Hoskins nei panni della sua controparte burocrate, il film passa di diritto tra le opere di genio cinematografico più importanti degli anni ottanta, figlia di un periodo fantascientifico importante e nipote di tutto quel modo di fare cinema in maniera completamente artigiana, attraverso il quale possono uscire fuori le idee più geniali. Un piccolo gioiello visivo che non mancherà di farvi riflettere su ben più di un argomento. Ultimo plauso alle meravigliose musiche di Michael Kamen, il quale rivisita in tutti i modi possibili e immaginabili Aquarela do Brasil, avvicinando ancor di più il prodotto finale ad un ipotetico futuro realistico che, in questi casi, non guasta mai.


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