"Idee tante, buone nessuna", diceva Jack Nicholson in un noto
film di Stanley Kubrick. Frase forse un po’ troppo preveggente, se pensiamo
alle innumerevoli pellicole che vengono sfornate al giorno d’oggi in maniera
così rapida e frettolosa da non riuscire ad avere una coerenza narrativa o
visiva. A volte, poi, queste pellicole prendono forma da idee strampalate di
persone appassionate di qualunque cosa, ma che alla fine risultano troppo
superficiali. Un po’ per la fretta di realizzarle, un po’ per l’impossibilità
di alcuni di uscire dal loro compito per impersonarne altri, questo
FreeRunner – Corri o Muori risulta un prodotto banale, noioso e sciocco. Il vero peccato è che la trama sarebbe potuta essere
interessante. Diretto dall’esordiente Lawrence Silverstein, qui alla sua
prima opera dietro la macchina da presa, il film ha l’unico pregio di mettere
in mostra il fisico atletico di Sean Faris e la bellezza corporea di Rebecca Da
Costa.
Tutto il resto è un tripudio di sequenze che collidono tra di loro, a causa anche di un piano di regia che vede la macchina a mano protagonista principale del montaggio, trasformando delle interessanti sequenze d’azione in momenti confusionari, fastidiosi e da mal di testa. Motivo per il quale non riusciamo a goderci neppure la maggior parte delle acrobazie di questi runner, che hanno tante capacità da mettere in mostra, ma che vengono riprese in malo modo. C’è poi il tema intrigante in pieno stile Hunger Games, dove questi ragazzi vengono costretti ad affrontarsi l’un l’altro in una perfida lotta per la sopravvivenza, anch’esso usato malissimo e portato avanti da dei villain che definirli ridicoli è piuttosto riduttivo. Limitati a macchiette comiche dietro una webcam, i cattivi di turno si divertono a vedere i runner correre, scommettendo tra di loro su chi avrà la meglio. Il boss di tutto è interpretato da un Danny Dyer sempre sopra le righe come tutti gli altri attori. Scelta voluta, forse, ma il risultato è pessimo, se mettiamo in conto i dialoghi sciocchi, le gag da salotto, gli sballottamenti della macchina da presa e, soprattutto, le numerose incoerenze narrative mescolate a semplicismi di sceneggiatura tutt’altro che trascurabili. Sean Faris qui prende anche il posto di produttore esecutivo, e si dimostra talmente appassionato di parkour da voler a tutti i costi concludere questa pellicola il più presto possibile, mostrando a tutti quanto sia atleticamente bravo. Il paragone con il tecnicamente impeccabile Knockout – Resa dei conti di Steven Soderbergh è inevitabile, poiché quest’ultimo è un film dal quale i numerosi autori esordienti dovrebbero imparare (dopotutto, nemmeno Gina Carano era mai stata un’attrice prima di quel film). In sostanza, i problemi di ripresa si sarebbero potuti risolvere con una semplice e sempre efficace steadycam, poiché la scelta della camera a mano posiziona il film a metà tra il mockumentary e la finzione cinematografica, facendo scappare al critico a cui piacciono le definizioni telefonate un commento semplicissimo e ovvio: questo film non è né carne né pesce. La “ripresa da strada” sembra uno stile facile da maneggiare, ma spesso e volentieri risulta ben più complesso, soprattutto se alle spalle non c’è il classico piano di regia che, irrimediabilmente, ha salvato molti affermati autori moderni dal disastro assicurato.
Tutto il resto è un tripudio di sequenze che collidono tra di loro, a causa anche di un piano di regia che vede la macchina a mano protagonista principale del montaggio, trasformando delle interessanti sequenze d’azione in momenti confusionari, fastidiosi e da mal di testa. Motivo per il quale non riusciamo a goderci neppure la maggior parte delle acrobazie di questi runner, che hanno tante capacità da mettere in mostra, ma che vengono riprese in malo modo. C’è poi il tema intrigante in pieno stile Hunger Games, dove questi ragazzi vengono costretti ad affrontarsi l’un l’altro in una perfida lotta per la sopravvivenza, anch’esso usato malissimo e portato avanti da dei villain che definirli ridicoli è piuttosto riduttivo. Limitati a macchiette comiche dietro una webcam, i cattivi di turno si divertono a vedere i runner correre, scommettendo tra di loro su chi avrà la meglio. Il boss di tutto è interpretato da un Danny Dyer sempre sopra le righe come tutti gli altri attori. Scelta voluta, forse, ma il risultato è pessimo, se mettiamo in conto i dialoghi sciocchi, le gag da salotto, gli sballottamenti della macchina da presa e, soprattutto, le numerose incoerenze narrative mescolate a semplicismi di sceneggiatura tutt’altro che trascurabili. Sean Faris qui prende anche il posto di produttore esecutivo, e si dimostra talmente appassionato di parkour da voler a tutti i costi concludere questa pellicola il più presto possibile, mostrando a tutti quanto sia atleticamente bravo. Il paragone con il tecnicamente impeccabile Knockout – Resa dei conti di Steven Soderbergh è inevitabile, poiché quest’ultimo è un film dal quale i numerosi autori esordienti dovrebbero imparare (dopotutto, nemmeno Gina Carano era mai stata un’attrice prima di quel film). In sostanza, i problemi di ripresa si sarebbero potuti risolvere con una semplice e sempre efficace steadycam, poiché la scelta della camera a mano posiziona il film a metà tra il mockumentary e la finzione cinematografica, facendo scappare al critico a cui piacciono le definizioni telefonate un commento semplicissimo e ovvio: questo film non è né carne né pesce. La “ripresa da strada” sembra uno stile facile da maneggiare, ma spesso e volentieri risulta ben più complesso, soprattutto se alle spalle non c’è il classico piano di regia che, irrimediabilmente, ha salvato molti affermati autori moderni dal disastro assicurato.
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