12 novembre 2012

ATM - Trappola Mortale


Molto spesso, quando si gira un horror in salsa thriller, si cerca di fare in modo che i personaggi non siano molto intelligenti, in modo che il killer di turno possa divertirsi come meglio preferisce. Bisogna però stare attenti a non superare il limite dell’irrealtà, poiché se i personaggi passano dalla stupidità all’idiozia, la credibilità del film scivola e la pellicola diventa inefficace. ATM – Trappola Mortale commette proprio questo errore, enfatizzandolo al massimo con dei dialoghi più che semplici e decisamente privi di senso. Ma andiamo con ordine. Si potrebbe sorvolare sulla già citata stupidità dei personaggi, se il film non fosse così lento ed eccessivamente didascalico.
Durante i primi venti minuti, in cui si cerca di presentare i protagonisti, non succede un bel niente e si corre il rischio di annoiare lo spettatore con dialoghi insulsi, non divertenti e adatti solo per la telenovela. Superato questo lungo momento iniziale, il film inizia a svilupparsi e i personaggi, con le loro solite battute prevedibili e ripetitive, si ritrovano finalmente bloccati all’interno del bancomat. Ma se la fotografia di Bengt Jonsson cerca di dare un senso all’atmosfera fredda e spaventosa, la sceneggiatura di Chris Sparling e la recitazione di tutti gli attori fanno in modo che i tre non assomiglino ai personaggi dei classici horror in stile La Casa, bensì appaiano più come i tre porcellini messi in trappola dal lupo cattivo. Le loro scelte non hanno motivazioni, le loro discussioni partono dal nulla e proseguono sempre in quella direzione, le loro battute non fanno altro che ripetere ciò che la macchina da presa sta inquadrando, raccontando l’azione e stancando lo spettatore. Inoltre non si riesce a creare un feeling con nessuno dei tre protagonisti, tutti troppo sciocchi e anonimi per poter essere apprezzati o anche solo compresi. Altro lato negativo è un cattivo privo di intensità, senza un volto da ricordare e senza particolari che possano spaventare. Ghostface, Freddie Krueger, e Jason vengono completamente accantonati per fare posto ad un anonimo cappuccio con il pelo, che lo stesso regista usa più volte e in modi diversi, sottolineando involontariamente che non c’è niente da temere da questo capo d’abbigliamento. La regia, dell’esordiente David Brooks, ci offre giusto un paio di momenti d’azione interessanti, per poi lasciare il posto a tante scelte sbagliate, come i cambi di fuoco privi di significato o alcune inquadrature che non fanno altro che preannunciare ciò che accadrà verso la fine del film. Gli ultimi tre minuti, poi, sembrano voler giocherellare ancora un po’ con lo spettatore, prima di lasciare il posto ai tanto desiderati titoli di coda. I pochi messaggi che tende a lanciare questo film sono fin troppo retorici e già sentiti più volte, compresa la critica alla video sorveglianza, che comunque non è raccontata in maniera corretta e un paio di volte può essere addirittura contestata da un pubblico attento e desideroso di uno script valido e realistico il più possibile. È proprio il realismo, infatti, che manca in questa pellicola, la quale risulta in tutto e per tutto un’esagerazione di momenti e situazioni critiche, che non si lasciano prendere sul serio. Uno studio più approfondito della trama e un piano di regia studiato meglio avrebbero potuto regalarci ben più di qualche sprazzo interessante, ma Brooks non ci mette passione non arriva nemmeno ad un’ora e mezza di durata, nonostante il brodo sia stato allungato oltre ogni limite.


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