14 novembre 2014

Oculus - Il riflesso del male

Ci voleva proprio un bell'horror del genere, quest'anno! Finalmente un film che non lascia l'amaro in bocca a fine visione ma che soddisfa lo spettatore senza alte ambizioni, rimanendo ad un livello di aspettative normalissimo. Di che cosa avrebbe mai potuto parlare un film di nome Oculus - Il riflesso del male, se non di un misterioso specchio demoniaco capace di condizionare i pensieri delle persone e di plasmare il mondo che le circonda a proprio piacimento, creando illusioni e distorcendo la realtà? Il regista Mike Flanagan imbastisce assieme a John Howard una trama piuttosto semplice e lineare: Kaylie vuole dimostrare che la morte dei suoi genitori è stata condizionata e imposta dallo specchio di Russell e Tim, suo fratello, le dà una mano a distruggere per sempre l'oggetto. Niente di più basilare, dunque: affari in sospeso, uno strumento malefico, un passato burrascoso e del rancore che necessita di vendetta e riscatto. Flanagan però decide di giocare con il montaggio alternato, alterando la percezione della realtà sia dei suoi personaggi che del suo pubblico, confondendo continuamente lo spettatore senza giocare sui classici spaventi improvvisi istigati da effetti sonori esplosivi o da improvvisi tagli di montaggio.
Il ritmo è lento e costante, come la colonna sonora dei The Newton Brothers che riempie di suspense i momenti altrimenti vuoti in cui i due protagonisti cercano di convincersi a vicenda che ciò in cui credono è sbagliato: Tim, all'inizio incredulo a causa di un'adolescenza passata tra carcere e sedute psichiatriche, vuol far credere a sua sorella che sia tutto frutto della sua mente e, viceversa, lei tenterà di fargli ricordare la verità. Pur rimanendo nella sua semplicità, Flanagan evita, laddove possibile, i canonici mascheroni demoniaci (a parte l'entità spettrale dello specchio e qualche occhio vitreo dei fantasmi che fuoriescono dallo specchio), dando maggiore importanza alla componente psicologica ed esasperando i due fratelli fino alla fine, in un sadico gioco tra passato e presente dove la storia tenderà a ripetersi. Peccato che una regia così puntuale e precisa sia anche ciò che sgretola un poco il finale: una volta capito il meccanismo del gioco tra le ombre del passato, gli spettri dello specchio e la realtà dei due protagonisti, non ci vuole molto a fare due più due ed anticipare di conseguenza il momento forse più enfatico della pellicola, anche se Flanagan fa di tutto per renderlo sorprendente. Poco importa, però: gli attori fanno il loro lavoro (dire che sono bravissimi sarebbe troppo esagerato, tuttavia non sbagliano per nulla i loro ruoli), la fotografia e i giochi di luce gestiti da Michael Fimognari creano atmosfere a metà tra l'onirico e lo spettrale, senza però far capire la differenza tra realtà e illusione (e questo è un bene) e il montaggio, ad opera dello stesso Flanagan, gioca con il buio, con gli angoli della casa e con ciò che il protagonista sta guardando (ma che noi non riusciamo a vedere), offrendo al pubblico il desiderio di guardare anziché la voglia di distogliere lo sguardo. La paura viene proposta nella maniera più ancestrale del termine, e questo film, sebbene sia lontanissimo dalla tanto abusata parola "capolavoro", resta comunque uno dei migliori prodotti di genere usciti in sala quest'anno.

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