Erano gli inizi del boom contemporaneo del cinefumetto, quel filone di successo che porterà sul grande schermo tutti i più famosi supereroi che siano mai comparsi sulla carta stampata. Anche quelli meno famosi. Per più volte. Anche troppe, in certi casi. Ma all'epoca non si sapeva quale sarebbe stato il destino di questi franchise, e mentre la Fox e la Columbia decisero di affidare i loro tentativi a registi interessanti come Bryan Singer e Sam Raimi, alla Warner si fece economia e si mise il destino di Blade, controverso antieroe marvelliano, nelle mani di Stephen Norrington, tecnico degli effetti speciali e specializzato in make up, ma non propriamente regista. Il primo Blade è infatti un non così disastroso prodotto d'intrattenimento che ha i suoi maggiori pregi nella fotografia dark (anche se piuttosto scolastica) di Theo van de Sande e nel montaggio ritmato e valido di Paul Rubell, il quale riesce a salvare alcuni errori di regia piuttosto grossolani (in alcuni momenti Rubell deve infatti riproporre degli stralci di scena già visti a causa di una mancanza di materiale girato, facendo comunque un buon lavoro e mascherando tale errore di regia agli occhi dello spettatore).
Ottima inoltre la scelta di proporre il ruolo di protagonista a Wesley Snipes, un perfetto Blade, personaggio a metà tra il vampiro e l'essere umano, ibrido nato da una madre morsa mentre era incinta, sostenuto da co-protagonisti altrettanto validi come il compagno caccia-vampiri Kris Kristofferson e l'esaltato villain Stephen Dorff. Si potrebbe dunque sorvolare sulla canonica regia priva di qualsivoglia respiro d'autore operata da Norrington, se non fosse per la grossolana sceneggiatura stesa da David S. Goyer, da sempre nemico dell'ambiente cinematografico in grado di offrire terrificanti momenti autoironici buoni per la carta stampata ma non altrettanto validi sul grande schermo. Senza un aiuto autoriale valido (Del Toro o Nolan, per intenderci, con i quali ha lavorato rispettivamente per il sequel di questo film e per la trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro), Goyer non riesce ad offrire quel pizzico di serietà adeguata affinché il film possa essere fruibile senza che il naso dello spettatore si storca troppo. Il problema fondamentale della sceneggiatura (ma si potrebbe benissimo usare anche il plurale nel caso di Goyer) sono i dialoghi farciti di battute sciocche e di momenti "spiegone" che, come sopra, stanno bene nei fumetti ma stonano terribilmente in questi casi. Per fortuna però la scelta di Norrington è di giocare le sue carte scommettendo su uno stile tamarro e urbano (le discoteche, i sobborghi e le metro sono gli ambienti più gettonati) e tutto questo attutisce un po' la semplicità dello script, lasciando che il film si possa guardare senza troppe pretese e con il solo obiettivo di divertirsi e lasciarsi intrattenere. Erano gli inizi, come si diceva poco fa, i primi esperimenti di cinefumetto e, se da un lato i registi con una carriera importante alle spalle tentavano di dare quel tocco cinematografico alle storie ispirate agli eroi in calzamaglia, dall'altro alcuni mestieranti del mondo del cinema cercavano di cogliere la palla al balzo e di affermare il loro nome dando al pubblico dei curiosi prodotti filmici, per cui non si può fare una colpa a Norrington per aver mantenuto i toni bassi e aver confezionato nella maniera più basilare possibile un divertente blockbuster che ha come vero e proprio pregio quello di intrigare Guillermo Del Toro e convincerlo a dirigere il secondo capitolo.
Talmente mollo che lo ricordo a malapena, tranne per l'incredibile bellezza di Stephen Dorff!
RispondiEliminaIncredibile e fastidiosa. Mai visto un cattivo più tamarro e piacione di quel diacono!
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