22 marzo 2013

Arancia Meccanica

Maestro della tecnica della messa in scena e dell'interazione tra i personaggi e ciò che li circonda, Stanley Kubrick ha sempre fatto e fa ancora parlare di sé, non tanto perché abbia fatto o meno scuola, ma più che altro per il suo modus operandi ancora oggi inimitabile. Geniale autore che sapeva veramente come mettere d'accordo la massa dal gusto facile con chi invece cercava film più importanti, anche in questo Arancia Meccanica (diventato ormai cult movie di tutte le generazioni di cinefili) non è da meno. Concentrandosi principalmente sul personaggio interpretato da Malcolm McDowell, l'ormai iconico Alexander DeLarge, Kubrick trasforma tutto il resto in una contorta società che ruota attorno al protagonista e che sarà più croce che delizia di tutte le sue scelte.
Come nella migliore fantascienza, anche questa volte il genere serve per fare in modo che il film si possa aprire non solo a diverse interpretazioni, ma anche a numerose critiche e analisi di una società drammatica (che per molti non è nemmeno molto lontana dalla realtà di oggi, che era anche quella di ieri e di ieri l'altro) puntando su una classe dominante che cerca di imporsi con un terribile pugno di ferro sui suoi criminali ma che ipocritamente non riesce nemmeno a tenere sotto controllo i suoi gendarmi (leggi poliziotti) sempre pronti a ricorrere alla violenza non appena ne hanno l'occasione. Questo è solo uno dei tanti punti su cui si focalizza la sceneggiatura di Kubrick ispirata al romanzo di Anthony Burgess, uno script completamente al servizio della messa in scena la quale gioca il ruolo fondamentale di trascinare lo spettatore all'interno di un vortice di ultraviolenza servita però sul piatto d'argento dell'arte contemporanea e della musica classica, sempre inquadrata con grandangoli stordenti e surreali e messa a nudo con scenografie futuriste macabre e repellenti: chi non ricorda il carrello d'apertura in cui Kubrick lentamente allarga la sua attenzione da Alex a tutto ciò che lo circonda, prima i suoi drughi e poi i manichini femminili, in una simbolica stanza ricca di metafore sessuali e droghe (il LattePiù) prima che la voce fuori campo di Alex DeLarge inizi a raccontare la storia ad un pubblico di fruitori passivi e inermi. Allegorie erotiche e nudi integrali si fondono tra loro assieme ad episodi di violenza circoscritti a poche persone oppure di massa, ad indicare che comunque la violenza è violenza e chi si comporta in un determinato modo non può aspettarsi un trattamento diverso dagli altri, in una sorta di legge del taglione terribilmente macabra dove gli individui si fanno giustizia da soli e dove la società continua a bastonare crudelmente il proprio popolo, mettendo in mostra l'ipocrisia di certi ceti sociali che ritengono volgare le stesse cose che, poste su uno scaffale e create appositamente, si trasformano invece in opere d'arte e che non si fanno scrupoli a ricorrere alla violenza pur di vendicarsi dei torti subiti in passato nonostante la proverbiale acqua passata sotto i ponti. Un gioco macabro all'interno del quale Stanley Kubrick dipinge il nuovo uomo moderno per quello che è sempre stato, mentre il quarto movimento della nona sinfonia del Ludovico Van diventa uno strumento di tortura anziché una opera d'arte, sostituita da peni post-moderni simbolo di un decadimento culturale e di un terribile scivolamento nell'ipocrisia.


2 commenti:

  1. un film che mi ha coinvolto per quasi tutta la sua durata..è davvero impressionante vedere come si sia trasformato Alex, nauseato al solo
    pensiero di colire una mosca,mentre prima uccideva e stuprava senza nessun motivo,e il suo ritorno alle origini proprio nell'ultima scena(ti confesso che non l'ho capita appieno) meglio un mostro che uno che soccombe al sistema

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    1. La verità sulla scena finale probabilmente non la sapremo mai...

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