Chi grida al capolavoro farebbe bene a recuperarsi più film e meno filmetti, perché Dallas Buyers Club non è un capolavoro. Gli sceneggiatori Craig Borten e Melisa Wallack prendono spunto da un fatto realmente accaduto e romanzano la storia di Ron Woodrof nella maniera più canonica che il cinema americano possa confezionare. Momenti comici atti a sdrammatizzare la situazione, una pseudo-storia d'amore (definibile anche impossibile, vista la gravità della situazione) e la solita parabola del cinico che impara dalla vita ad essere altruista e tollerante. La storia di Woodrof è infatti quella di un eterosessuale omofobo a cui diagnosticano il virus dell'HIV ambientata nel periodo della scoperta imprevista di questa malattia. Dopo aver scoperto un'America che vuole farsi bella e che promuove farmaci fasulli come l'AZT anziché reperire dall'estero medicine veramente in grado di alleviare le sofferenze dei sieropositivi, Ron decide di dare battaglia al suo Governo e di importare illegalmente i farmaci, aprendo un vero e proprio club dal quale spartire le cure ai bisognosi.
Governo ladro, uomo buono e redento, spalle tragicomiche: questo è ciò che rende il film sopravvalutato. Tuttavia permettetemi di aggiungere che quella sopravvalutazione da parte del grande pubblico se la merita tutta, perché Jean-Marc Vallée ha voluto prendere in mano un progetto fermo da più di dieci anni riuscendo a sfruttare nel migliore dei modi tutti i punti forti che lo caratterizzano. Primo tra tutti Matthew McConaughey, fantastico texano emaciato e pienamente convincente, risulta quasi incredibile che poco più di un anno fa questo stesso attore era sul set di Magic Mike, muscoloso e attraente. Al suo fianco Jared Leto, conosciuto ai più come leader del gruppo musicale 30 seconds to Mars, qui in una delle prove d'attore più meravigliose dell'ultimo periodo: semplice e stereotipato nella scrittura, il suo personaggio è però colui che affina la componente emotiva di un paio di momenti raggelanti del film (la sequenza al supermercato e, su tutte, il momento con il padre in banca). Assieme a loro c'è Jennifer Garner, quota rosa del cast e co-protagonista del film, a dimostrare che per essere bravi attori (o brave attrici, nel suo caso) è necessario avere alle spalle anche un bravo regista. E Vallée dimostra di esserlo, dando ampio spazio ai protagonisti e facendo dare a loro il meglio di loro stessi affinché lo spettatore si dimentichi delle semplicità di sceneggiatura, si lasci trascinare da questa ennesima critica all'America e si faccia coinvolgere in questo racconto anche dall'ottimo montaggio firmato dallo stesso Vallée e da Martin Pensa e dalla drammatica fotografia di Yves Bélanger. Da sottolineare, in ultimo, la riflessione che questo film ci lascia a fine visione: erano gli anni ottanta quando il virus dell'HIV iniziava a mietere vittime e a spaventare la gente. Le persone venivano additate come omosessuali, isolate e denigrate a causa dell'ignoranza che si diffondeva assieme all'AIDS. Certo, magari rimpiangiamo i decenni passati per tante cose, ma alla luce della frase precedente è interessante notare come il film evidenzi che, in fondo, non si stava così meglio quando si stava peggio. E, ripensando all'ultima frase dopo i titoli di coda (che ci fa notare che il virus non è stato ancora completamente sconfitto), è altrettanto deprimente notare come il nostro mondo contemporaneo, così attaccato ai soldi e così denigratorio verso i diversi, non abbia fatto grossi passi da gigante da quegli ormai lontani anni ottanta.
Molto bello, ma sopravvalutato.
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