Quando diciamo la parola “horror” ci vengono in mente
tantissime cose, dagli esorcismi, agli omicidi, fino ad arrivare a serial
killer e creature demoniache. Tuttavia, se dicessimo “lupo mannaro” ci verrebbe
subito in mente la commedia di John Landis, se invece la parola fosse “vampiro”
penseremmo subito a Dracula e alle varie trasposizioni cinematografiche. Ma che
cosa accadrebbe se qualcuno dicesse la parola “zombi”? Parlando sempre in
termini cinematografici, non si potrebbe non pensare al grandissimo George A.
Romero che, con la sua saga sui morti viventi, ha cambiato le regole del cinema
horror e il senso che questi film dovevano avere.
Fatto con un budget ridicolo, girato in Super8 e in bianco e
nero, La notte dei morti viventi è riuscito a diventare uno dei migliori cult
horror degli anni ‘60/’70. Merito soprattutto della perfetta sceneggiatura di
George A. Romero che è tra i primi a sperimentare un horror simbolico e
critico, dove ogni personaggio ha un suo ruolo importante che risulta uno
specchio di ciò che possiamo trovare nella nostra società. L’horror con Romero
diventa quindi non più il genere dello spavento, del sangue e della violenza,
bensì qualcosa che si innalza al di sopra delle proprie qualità superficiali,
narrando d’ora in poi storie ben più profonde e piene di forte critica nei
confronti del mondo in cui viviamo. L’esempio più importante lo si può trovare
nelle sequenze in cui i personaggi litigano tra loro per prendere il controllo della
situazione prima con la ragione, poi con la violenza, dimostrando che l’uomo è
innanzitutto istinto e, se le leggi dovessero iniziare a perdere consistenza,
ciò che regnerebbe sarebbe il caos più totale. Ma questa nuova rivisitazione
del genere non preclude certamente ciò che ormai sono diventati i cliché del
filone horror, sia in letteratura che in cinematografia: l’isolamento dal resto
del mondo, la porta quale sinonimo di confine fisico e logico tra due entità
differenti e la caduta della moralità a favore della lotta per la sopravvivenza.
Ma ciò che differenzia un racconto letterario da un racconto cinematografico è
proprio il fatto che nella proiezione si può fare affidamento a materiale in
più quali, ad esempio, le musiche e gli effetti sonori, perfettamente stordenti
e completamente fastidiosi (nel senso positivo del termine, poiché stiamo
parlando di un horror), tanto da fare in modo che l’angoscia dello spettatore
salga sempre di più e sia all’interno della vicenda nel miglior modo possibile.
Altro importante fattore positivo è il ritmo calibrato a dovere, che inizia con
una introduzione meravigliosamente cinica per poi fare in modo che le
situazioni continuino a degenerare di volta in volta (dall’isolamento
all’aumento degli zombi, per poi ritrovarsi senza corrente e con le porte che
lentamente iniziano a cedere), mantenendo la tensione del pubblico sempre alta
e mai calante. I temi da analizzare sono tanti e impossibili da descrivere in
queste poche righe, poiché ognuno ha la sua importanza e non potrei
certamente citarne un paio senza fare torto agli altri. Vi basti sapere che
Romero ha diretto al momento ben sei film sugli zombi e tutti quanti con
critiche totalmente diverse l’una dall’altra, nonostante la qualità altalenante delle diverse pellicole. Unica nota lievemente negativa è
la fotografia del film, che qua e là risente della povertà dei fondi economici
del film, risultando troppo buia. Tuttavia è un banalissimo neo all’interno di
un film che, seppur girato nel 1968, riesce ancora a spaventare come se fosse
ieri. Il consiglio che mi sento di darvi è quello di recuperare prima il capolavoro di George A. Romero e poi l'omonimo remake diretto da Tom Savini,
poiché sono opere che, in comune, hanno solo i villain e il titolo e raccontano
la stessa storia ma in maniera totalmente diversa.
Supercult, difficile da valutare obiettivamente, per me. Resta una critica sociologica infinita, con un finale altamente disturbante nella sua semplicità.
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