Quante volte ci siamo imbattuti in pellicole che enfatizzano
il lato umano e criticano aspramente la società in cui viviamo? Molto spesso
gli autori cinematografici si pongono in maniera critica anche se non hanno
intenzione di farlo, poiché tanta è la voglia di raccontare i propri personaggi
che, se non c’è nessun cattivo (inteso anche come persona fastidiosa) nel cast,
bisogna per forza trovarlo da qualche altra parte. Thomas McCarthy nasce
attore, per cui interessato ancora di più a quello che i suoi protagonisti
devono raccontare rispetto ad un qualsiasi autore di cinema che nasce regista. Con una semplicità spiazzante, McCarthy racconta una
storia che parla con naturalezza allo spettatore e riesce a farlo riflettere su
temi terribilmente moderni e tragici, primo tra tutti il problema
dell’immigrazione, seguito dal modo in cui (in questo caso) l’America tratta i
suoi clandestini, solo per dar loro un esempio di cosa devono aspettarsi e di fare di loro dei capri espiatori per chiunque abbia intenzione di trasferirsi nel loro "paese delle libertà". Ma
c’è di più, perché L'ospite inatteso penetra emotivamente nel cuore del pubblico,
grazie al modo in cui il regista lascia gli spessori giusti ai rapporti tra i
personaggi.
L’unico momento in cui ricordiamo per la prima metà del film la
defunta moglie di Walter, ad esempio, è grazie al suo tentativo di suonare il
pianoforte, una prova sbavata e frammentata, proprio come la memoria della
donna. Qui ogni personaggio ha il suo giusto peso, raccontato da una musica
protagonista al 100% e composta da Jan A.P. Kaczmarek, la quale trascina lo spettatore in un connubio di suoni
diversi che rappresentano mondi e culture differenti pronte ad unirsi (emblematica
la scena in cui Walter porta la madre di Tarek, Haaz Sleiman lui e Hiam Abbass lei, ad assistere ad uno spettacolo
de Il Fantasma dell’Opera) e a rappresentare non solo gli stati d’animo dei
personaggi, ma anche il loro modo di essere, mettendo in luce la trasformazione
di ognuno di loro (Tarek è infatti senza musica quando viene arrestato, mentre
Walter continua fino alla fine a dimostrare sempre caratteri diversi a seconda
del modo in cui picchia il suo tamburo). Con un Richard Jenkins (visto
anche nei consigliatissimi Blood Story di Matt Reeves e nell’horror di Drew
Goddard Quella casa nel bosco, prodotto da Joss Whedon) perfetto, freddo e
burbero ma avvolgente ed emotivo quando deve esserlo, aiutato anche dall’ottima
caratterizzazione fisica e non solo espressiva, L’ospite inatteso si dimostra
la seconda ottima prova di un regista capace di concentrarsi su temi forti,
inseriti l’uno all’interno dell’altro come in una piccola matrioska da poco più
di un’ora e mezza, capace di vincere due Satellite Award (uno per Jenkins e uno
per la sceneggiatura dello stesso McCarthy) ma, soprattutto, in grado di rimanere impressa nel cuore
di chi ha voglia di riflettere su tematiche fondamentali e moderne, ma di
lasciarsi comunque avvinghiare da un film tutt’altro che stucchevole,
tragicamente realistico e vero. Una delle opere più interessanti di un continente che produce sì tanta robaccia commerciale, ma che non esita a distribuire anche su scala mondiale qualche piccolo progetto lievemente controproducente, capace di mettere sotto gli occhi di tutti uno dei tanti lati oscuri di un paese spesso e volentieri visto come una opportunità.
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