Sono tanti i film degni di nota nella filmografia del
regista George A. Romero, il quale non solo ci ha regalato una saga dedicata ai
morti viventi iniziata nel 1968 e terminata – almeno temporaneamente – nel 2009,
ma ci ha anche proposto pellicole più sconosciute ma di qualità eguale, se non
superiore, alla sua serie più famosa. Il regista spazia continuamente tra
vampiri, streghe, zombi e fantasmi, restando sempre sul genere horror e
accomunando tutti i suoi lavori sotto uno stesso tema che si può tentare di
riassumere in una sola parola: disumanità. Nelle pellicole di Romero è spesso
l’uomo ad essere il vero villain di se stesso, sebbene sia minacciato da altri
esseri e debba, in teoria, fare squadra per sopravvivere. Questa tematica è
ancora più evidenziata in una delle sue primissime pellicole, rinominata dai
nostri traduttori italiani con il titolo La città verrà distrutta all’alba,
storpiando senza nessuna motivazione il titolo originale, pieno di significato
e utile a capire al meglio la pellicola.
È in The Crazies, infatti, che si può
trovare il vero senso di questo film, poiché il regista non ha intenzione di
parlare di epidemie, di sopravvissuti e di evasioni, ma vuole invece
concentrarsi sulla follia umana, tentando di svilupparla in tutte le sue forme.
In quest’opera i temi sono tanti e tutti ben studiati, grazie all’ottima
descrizione dei personaggi, ognuno dei quali ha qualcosa di diverso da
raccontare ad uno spettatore spiazzato dalla profondità della terza pellicola
di quello che sarà catalogato come uno dei maestri del cinema horror. Le
riflessioni che si possono fare sono tantissime, ed è proprio questo il bello
del primo Romero, che vuole rivoluzionare tentando di raccontare qualcosa che
il pubblico non si aspetta, mettendo lo spettatore in una posizione tale che
deve inevitabilmente riflettere su qualcosa, sia superficialmente che in
maniera più profonda. Con questa nuova ideologia, questo autore non solo si
innalza rispetto ad altri nomi del genere, ma riesce anche a dare una
importante spinta all’horror, finora bistrattato da critici e cinefili e finalmente
riconosciuto come un genere che ha qualcosa in più da offrire oltre al sangue e
alla violenza. I difetti del film sono generalmente basati su un’indipendenza
disturbante, che fa notare la sua presenza soprattutto in alcuni dialoghi a
volte ridondanti e su recitazioni sì buone, ma qua e là troppo accentuate. Sono
piccoli nei, questi, che non faranno apprezzare questo lavoro al grande
pubblico odierno, anche a causa di un cattivo invecchiamento, ma che non
infastidiranno i palati fini e ansiosi di recuperare pellicole di nicchia che
hanno, nel loro piccolo, fatto la storia del cinema. Soprattutto se si pensa al
fatto che, con mezzi ben più potenti, nel 2010, Breck Eisner diresse un
ambizioso remake di per sé ben costruito, ma incapace anche solo di grattare la
superficie di questo fantastico e profondo prototipo, che affonda le sue radici
su un’indissolubile importanza delle diverse psicologie dei personaggi, ma
anche sui loro rapporti litigiosi e conflittuali, causati a volte dal virus e
altre dalla loro frenetica volontà di porre un rimedio a questa drammatica
situazione. In un periodo come quello moderno, in cui i batteri e le
tecnologie atomiche (citate anch’esse in questo film) sono una delle nostre
principali preoccupazioni, è sempre un piacere riscoprire vecchie pellicole che
già tempo addietro si concentravano su queste problematiche in maniera ben più
originale di come fanno alcuni registi oggi.
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