tag:blogger.com,1999:blog-64425153615765577702024-03-13T23:02:18.006-07:00 CINEFOLLIEIl blogAnonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.comBlogger370125tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-34976873031222961472018-01-12T03:23:00.001-08:002018-01-12T03:23:10.893-08:00Nuovo blog, addio BlogspotCiao a tutti,<br />
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Il post non sarà né malinconico, né nostalgico, né tantomeno lungo. Sarà invece asettico, schietto, veloce e immediato.<br />
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Volevo solo dirvi che mi sono trasferito su WordPress, poiché ho trovato in quella piattaforma grafiche migliori, una maggior semplicità nella scrittura e pubblicazione dei post e, in sostanza, tutte quelle belle cose che cercavo per farmi ritornare la voglia di scrivere e pubblicare le mie opinioni su cinema, serie tv e, chissà, magari anche su qualcos'altro.<br />
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Vi invito pertanto al mio <a href="https://cinefollie.wordpress.com/" target="_blank">nuovo blog</a> dove, pian piano, trasferirò anche i mie testi migliori già pubblicati su questa piattaforma.<br />
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Vi aspetto su https://cinefollie.wordpress.com/ !!!<br />
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<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVBqZrUUTO9BjA053HJF-kLTmourLfyIVU-oqoDGSkfGOkALpkvgCnRYpNeMJsZBKfGgFnAL88pCfj6dFn5r_-eissDol9kQsO53VRR2C2eKQsmwy1trTxtFKDQWCmcHxjWeXK8I66WDXz/s1600/testata-youtube2.png" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVBqZrUUTO9BjA053HJF-kLTmourLfyIVU-oqoDGSkfGOkALpkvgCnRYpNeMJsZBKfGgFnAL88pCfj6dFn5r_-eissDol9kQsO53VRR2C2eKQsmwy1trTxtFKDQWCmcHxjWeXK8I66WDXz/s640/testata-youtube2.png" width="640" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><a href="https://cinefollie.wordpress.com/" target="_blank">IL MIO NUOVO BLOG!</a></td></tr>
</tbody></table>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-51022798496374473242016-12-10T03:31:00.000-08:002016-12-10T03:31:03.734-08:00Alla Ricerca di Dory<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8RpmfSgxqLcn6fVWAKSHZxAl9sDdLvcvLzWyhVZje505QqR-2VaQzKlrIIGCzfAlH9RmF9gOjIeJOKO-yd5O3EsjAyaDSiSmxwdWVMu4PSRYE1l6A1kzO74tgMr9yCclLy8zWdPnNcvAX/s1600/Alla+Ricerca+di+Dory.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8RpmfSgxqLcn6fVWAKSHZxAl9sDdLvcvLzWyhVZje505QqR-2VaQzKlrIIGCzfAlH9RmF9gOjIeJOKO-yd5O3EsjAyaDSiSmxwdWVMu4PSRYE1l6A1kzO74tgMr9yCclLy8zWdPnNcvAX/s320/Alla+Ricerca+di+Dory.jpg" width="216" /></a></div>
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Avete presente quando dentro di voi nasce quel senso di nostalgia, quel desiderio di fare un tuffo nel passato e di permettere a preziosi e importanti ricordi di affiorare nuovamente in superficie? Quando questo bisogno si accende, ci si ritrova a sfogliare vecchi album di fotografie (per chi ne ha ancora in casa), a spulciare all'interno dell'hard-disk ricco di immagini e video di famiglia, alla ricerca di qualche piccola àncora pronta a ricordarci chi eravamo. La ricerca del ricordo è un lavoro profondo, ma anche personale, unico, individuale, che non si può ripetere in maniera identica in un'altra persona; ecco perché le famigerate proiezioni di diapositive sono sempre state tacciate di tedio e denigrate (anche) ironicamente in qualunque film venissero rappresentate. Avete presente, vero? Il relatore così appassionato nel racconto dell'immagine proiettata sullo schermo mentre il pubblico, avvolto dall'oscurità della camera, è intento a cercare di non addormentarsi e di fingere coinvolgimento. <i>Qui eravamo a... Qui invece stavamo facendo... Oh, e questa! Questa! Guardate!</i> e intanto tutti gli amici e parenti sorridono, desiderosi di essere da un'altra parte. Anche in quelli che hanno partecipato alla vicenda raccontata dalle immagini proiettate si fa strada, alla terza, quarta diapositiva, l'idea che magari è ora di fare basta. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Questa è stata la sensazione durante la visione di <i>Alla ricerca di Dory</i>, simpatico amarcord pixariano che riporta lo spettatore nei meravigliosi paesaggi oceanici dove ha imparato a conoscere Marlin, Nemo e Dory e tutti gli altri appassionanti personaggi che, questa volta, sembrano aver perso il loro appeal, ridotti tutti a leggere e sbiadite macchiette (blu?). Se questo gioco di riduzione dei protagonisti fosse servito per dare più enfasi ai nuovi personaggi proposti sullo schermo avrebbe anche avuto un senso, la verità però è che nessuno dei nuovi arrivi è stato studiato con lo scopo di rubare la scena alle vecchie conoscenze. Ci abbiamo fatto l'abitudine, in un certo qual modo, ai sequel Pixar, e spesso questi secondi e terzi capitoli hanno permesso agli autori e, di conseguenza, al pubblico, di approfondire parentesi narrative appena abbozzate nelle "precedenti puntate", tuffandosi in anfratti più profondi della personalità dei personaggi, oppure offrendo agli spettatori un simpatico e intrigante rollercoaster visivo ricco di azione e citazioni (<i>Toy Story 2</i> e <i>3 </i>nel primo caso, <i>Cars 2</i> nel secondo). Questa volta, purtroppo, l'oceano non offre nulla di nuovo, le trovate narrative sono abbastanza esagerate, quelle visive non valgono una seconda visione e, in ultimo, i personaggi non intrigano, non coinvolgono, i conflitti non esistono e nessun rapporto viene messo in discussione. Ci si diverte, per carità, alcune gag strappano un sorriso, alcuni momenti coinvolgono e certe scene hanno quel buon vecchio tono Pixar che si ama. Ma, come detto sopra, alla terza, quarta diapositiva sarebbe anche ora di fare basta.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-67507958371953662932016-09-12T01:32:00.000-07:002016-09-12T01:32:55.873-07:00Ghostbusters<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi76YQ18Ox0z3sz2x8gs4UavhjHdutXd3Yl-covTqehlae7dBRgD8u49zEkmpIv5h4wDbJVkHKrQrEFsaLZjfdTnFH2Wjm_GcsaCUWlRVWyrh_9fHdvE1RsbrrpGDuIuvBkmAnIzzXAXsJQ/s1600/Ghostbusters.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi76YQ18Ox0z3sz2x8gs4UavhjHdutXd3Yl-covTqehlae7dBRgD8u49zEkmpIv5h4wDbJVkHKrQrEFsaLZjfdTnFH2Wjm_GcsaCUWlRVWyrh_9fHdvE1RsbrrpGDuIuvBkmAnIzzXAXsJQ/s320/Ghostbusters.jpg" width="215" /></a></div>
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Per quanto possiate sforzarvi, per quanto vogliate a tutti i costi marcare considerevolmente gli errori ed i lati negativi di questo prodotto, non riuscirete, miei cari fanboy della vecchia guardia, ad affossare completamente il lavoro del regista <b>Paul Feig</b> su questa nuova versione dei famosi ed acclamati acchiappafantasmi. Il reboot al femminile di <i>Ghostbusters </i>riesce infatti a rinfrescare il franchise senza troppi problemi, puntando sul rinnovamento senza dimenticarsi di ammiccare qui e là a ciò che è già stato fatto.</div>
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La trama è piuttosto elementare: quattro sgangherati personaggi femminili esperti (più o meno) di scienza si ritrovano a studiare i fenomeni paranormali che inspiegabilmente si manifestano uno dietro l'altro tra i palazzi di New York; il resto potete intuirlo senza troppi problemi. Ebbene, se la storia non propone particolari innovazioni rispetto al vecchio e amato prodotto del 1984 di <b>Ivan Reitman</b> (qui in veste di produttore esecutivo), ecco che la novità viene portata sullo schermo dai personaggi e dalle loro interpretazioni.</div>
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Con un quartetto tutto al femminile, Paul Feig riesce ad offrire al pubblico un diverso punto di vista in merito ai rapporti sociali di qualsivoglia tipo presenti sulla scena, caratterizzando le sue eroine in maniera differente ma sempre attenta e puntuale, offrendo al pubblico un poker di attrici che riescono, con la loro bravura, il loro carisma e l'alchimia di un gruppo sentitamente affiatato, a fare appassionare lo spettatore e ad offrirgli qualcosa che non aveva ancora visto, all'interno di questo franchise, senza che nessuna delle quattro sovrasti le altre per importanza (proprio come accadeva con il quartetto originale) e dando al pubblico la possibilità di scegliere la sua preferita (per quanto mi riguarda,<b> Kate McKinnon</b> rulez).</div>
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Ma, ahimè, il film non è esente da difetti, primo tra tutti una poco accurata gestione della componente <i>action</i>, che avrebbe necessitato di più attenzione e spazio, soprattutto in uno sci-fi figlio dei giorni nostri che narra di una ipotetica apocalisse guidata da spettri. Feig invece si concentra (egregiamente, ammettiamolo) sui dialoghi e sui rapporti tra i personaggi, costruendo una prima parte quasi impeccabile ma ritrovandosi, così facendo, ad affrontare un secondo tempo decisamente meno graffiante e più moscio.</div>
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Non mancano, ovviamente, le strizzatine d'occhio all'immaginario già noto di questo universo, dai cammeo di <b>Ernie Hudson</b>, <b>Dan Aykroyd</b>, del burbero <b>Bill Murray </b>e di <b>Sigourney Weaver </b>fino alle citazioni musicali del tema di <b>Ray Parker Jr.</b>, passando per l'iconico Slimer e il pupazzo di Marshmallow, le quali arrischino il film per fare gioire i fan senza trasformare tutta la baracca in un nostalgico revival di cose già viste.</div>
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Feig, insomma, fa bene il suo ruolo di commediante, ma si ritrova a disagio nei panni del regista d'azione, ruolo nel quale ancora deve farsi le ossa. Fosse stato per me gli avrei dato in mano il sequel, il terzo capitolo e anche un ipotetico quarto episodio ma, purtroppo, il botteghino parla chiaro e qualcuno, in giro per il mondo, aveva già deciso che questo reboot non s'aveva da fare. Vorrei mettermi a parlare dell'ignoranza dello spettatore medio, dell'arroganza del fanboy di fanteria, dell'ottusa occlusione mentale di un pubblico impreparato al nuovo, spaventato, morbosamente attaccato ad un passato che crede personale ed intoccabile, ignorante del fatto che esso sia proprietà collettiva e che possa essere svecchiato in maniera serena e nuova, senza essere per nulla cancellato.</div>
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Vorrei, ma perderei il focus principale del testo. Mi levo quindi il cappello dinnanzi a Paul Feig e a tutto il cast tecnico ed artistico di questa piacevole ventata d'aria fresca, senza dilungarmi oltre. Qualora non siate della stessa mia idea, vi ricordo che <i>Ghostbusters </i>e <i>Ghostbusters II </i>sono sempre lì e nessuno ve li toccherà; voi, invece, avete impedito la realizzazione di un sequel che avrebbe potuto cancellare i difetti di questo primo esperimento e dare vita ad un secondo episodio più scoppiettante e senza freni. Un sequel che, onestamente, avrei voglia di vedere.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-Z54O7Wk8YhEAitiKOHjQEt_lntBV-vclU6NmnGDkMhyphenhyphenf0BSFRu5pjLTDc1m8s1mykXHMbHnqnTD7Lyf7AmV_u1mcFqv2odoI6AwBcoKVbD196dty0wSWN0rI7Podf0Jnx6Tt30i8MOD7/s1600/Captain+America+-+Civil+War.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-Z54O7Wk8YhEAitiKOHjQEt_lntBV-vclU6NmnGDkMhyphenhyphenf0BSFRu5pjLTDc1m8s1mykXHMbHnqnTD7Lyf7AmV_u1mcFqv2odoI6AwBcoKVbD196dty0wSWN0rI7Podf0Jnx6Tt30i8MOD7/s320/Captain+America+-+Civil+War.jpg" width="216" /></a></div>
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Bisogna ammetterlo: è da quando annunciarono il primo <i>Avengers </i>che gli appassionati di fumetti aspettano con ansia un adattamento cinematografico di una delle saghe che ha cambiato il concetto stesso di comic book, aprendo le porte a quei cambiamenti inaspettati che passano dallo SpiderMan afroamericano al Capitan America nazista, dal figlio di Batman al tragico <i>Ultimatum </i>dell'universo Ultimate. Tutti, quindi, me compreso, volevano vedere la maestosa Guerra Civile degli eroi marvelliani trasposta sul grande schermo. Ammetto che, col passare del tempo, con l'alzarsi della mia età anagrafica e l'abbassarsi della qualità dei prodotti di intrattenimento, questo desiderio è andato scemando, tuttavia non possiamo dire di no all'evento dell'anno, così eccoci qua a parlare di <i>Captain America: Civil War</i>, uno dei film più anonimi e bizzarri di questo 2016.</div>
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Diretta dai <b>fratelli Russo</b>, due che dietro la macchina da presa ci stanno per comodità più che per senso artistico, la pellicola ha il pregio di calibrare adeguatamente la presenza e la profondità di tutti i personaggi in gioco, relegando a macchiette o spalle solamente quegli eroi che hanno un tempo limitato di presenza scenica. Allo stesso modo si respira dall'inizio alla fine l'atmosfera di frattura che si andrà a creare tra i protagonisti, senza eccessivi sbalzi di inutile ironia e mantenendo un tono costante e sempre coerente con il tema e le vicende narrate. Però.</div>
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Però, ragazzi miei, ho trovato esageratamente fuori luogo il ritmo delle scene d'azione, dove si lavora un po' di descrizione e un po' di montaggio a casaccio. Riescono bene, i fratelli Russo, nei duelli e, soprattutto, nel triello finale, dove si sente che ci hanno messo anima e corpo, ma per quanto riguarda gli inseguimenti e gli scontri collettivi, l'attenzione dello spettatore cala di brutto, anche per via di un asettico alternarsi di momenti action e didascaliche diatribe filo-politiche che non giovano certamente alla fluidità del prodotto, se inseriti in maniera così televisiva.</div>
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Allo stesso modo ho trovato incoerente e particolarmente fastidiosa una scelta narrativa che, per essere spiegata, necessita di una elevata descrizione spoileristica, pertanto attenti voi che non avete visto il film. Per chi proseguirà nella lettura, invece: pensate ad <i>Iron Man 3</i>, a <i>The Winter Soldier</i> e ad <i>Age of Ultron</i>. Che cos'hanno in comune? Il cattivo che colpisce dall'interno: Killian come burattinaio del Mandarino, Pierce come colui che vuole affossare lo S.H.I.E.L.D. e, infine, Ultron come nemesi creata artificialmente dallo stesso Tony Stark. Tanta fatica per spingere il messaggio che il vero nemico si nasconde tra le proprie fila per poi tornare indietro agli anni '40 e lasciare che sia un maledetto crucco filonazista (interpretato magistralmente da <b>Daniel Brühl</b>) a scatenare la guerra civile? Proprio in questo film, potenzialmente l'unico o comunque il più adatto ad ospitare il concetto del nemico tra gli amici, si tira in ballo Zemo come stratega principale? La cosa mi pare alquanto bizzarra e campata un po' in aria, soprattutto visti i pregressi del Marvel Cinematic Universe.</div>
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Si torna, infine, al problema essenziale di questo progetto <i>larger than life</i>: con tutti questi episodi si corre sempre il rischio di non riuscire più a fare un film che abbia un inizio e una fine e, di conseguenza, un concetto vero e proprio da sviluppare tra il capo e la coda. Il risultato è, ancora una volta, un prodotto gradevole alla vista ma semplice nei contenuti, che racconta la sua storiella senza colpo ferire e si lascia guardare senza mai uscire dal recinto del compitino assegnato svolto in maniera elementare.</div>
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBY-Ex6bTb1sr0AEFXsTrtawwva6HyJ87sk39wtoWZzO7p_KlUlD1YDLLVGS4X0AY-CFXnIfxG3JLI3iwLsNc2hyphenhyphenNeXdzbkWuqscgldgxqpimo0dXPmILElczlZumVwBPosdkmqkOjXkXr/s1600/Batman+V+Superman.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBY-Ex6bTb1sr0AEFXsTrtawwva6HyJ87sk39wtoWZzO7p_KlUlD1YDLLVGS4X0AY-CFXnIfxG3JLI3iwLsNc2hyphenhyphenNeXdzbkWuqscgldgxqpimo0dXPmILElczlZumVwBPosdkmqkOjXkXr/s320/Batman+V+Superman.jpg" width="216" /></a></div>
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Voglio essere sincero con voi, sarà veramente faticoso descrivere tutto quello che ho provato nell'assistere a queste interminabili due ore e più di film per il quale, ad essere onesti, nutrivo già bassissime aspettative. <i>Cosa lo guardi a fare?</i> mi chiederete. È presto detto: con <i>L'uomo d'acciaio</i> provai un bizzarro piacere nel deridere la grossolana inefficacia della regia di <b>Zack Snyder,</b> per cui speravo di ritrovare la stessa gioia anche nella visione di questo prodotto. Ebbene, essa è tornata per poi spegnersi subito dopo la prima triste mezz'ora di carrellate caotiche e montaggio confusionario, quasi come se i film di Snyder si possano comprendere solo se utilizza i ralenti, in modo tale che la mente dello spettatore possa focalizzare punti cardine nella scena e non perdersi nei meandri delle inquadrature appiccicate tra di loro in maniera esageratamente serrata.</div>
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Abbandonata dunque la speranza di un divertimento sadico, cerco disperatamente qualcosa di buono nella scrittura dei personaggi o della trama in generale ma, ahimè, la sceneggiatura è affidata a <b>David S. Goyer</b>, uno che l'avrà fatta nel vaso sì e no sei volte in tutta la sua carriera, per cui mi preparo ad una vetrina di testosteronici cavernicoli che non riescono a connettere i muscoli al cervello e che hanno come priorità non il senso di giustizia, ma quello di vendetta, i quali vogliono prevalere l'uno sull'altro e che, insomma, c'hanno un po' tutti la mamma puttana.</div>
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Ma dico io: ma sì può partire da Metropolis per andare a Gotham a cercare di convincere Batman a spalleggiarti per poi finire col picchiarlo fragorosamente senza fermarsi un attimo a spiegare le proprie ragioni? Ma dopo che lo attacchi al muro non puoi placcarlo un attimo lì e iniziare a parlarci? Insomma.. SEI SUPERMAN, se non tocca la Kryptonite che cosa può farti? Bloccagli le mani e parlaci, no? NO!</div>
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Chiedo scusa per la violenta digressione fuori luogo... di che cosa stavamo parlando? Ah, già, dei personaggi che si muovono in una ben poco determinata logica razionale, spinti dai puri impulsi animaleschi della prevaricazione reciproca, dove anche il folle Lex Luthor sembra essere un po' imbecille, o quantomeno fuori luogo. Sì, perché il personaggio interpretato da <b>Jesse Eisenberg</b> appare come una platonica chiazza di filosofia in un mondo ancora chiuso nella caverna, rendendo piuttosto risibile il tentativo di spruzzare una spolverata di serietà all'interno di un prodotto che tutto può essere, meno che Nolaniano.</div>
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Volevo divertirmi, insomma, volevo ridere della stupidità delle scelte di regia e degli snodi narrativi, e invece mi sono ritrovato incastrato in un polpettone di più di due ore talmente inconsistente che nemmeno la battaglia promessa dal titolo avviene per via di motivazioni sensate: si picchiano e basta, mentre Luthor filosofeggia e basta, Lois piange e basta, <b>Jeremy Irons</b> si chiede <i>ma io effettivamente a che cosa servo?</i> e, per non dimenticare, Wonder Woman fa cose. A caso. Quasi come la regia di Snyder (quasi). Alla fine di tutto, però, un dubbio mi è rimasto: ma Martha, in analisi grammaticale, è ancora classificabile come nome proprio o possiamo considerarlo nome comune?</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEir0mS3Z1u9xe70au0VZdPIg7DuaQ4qyPAblxtt7QAGfKNXgcN_tvePZBtw5amxxKZW3UMQK3N1SEJGjsNf_KAOLeLb069jBitJRXvZwMfoSgZ3MJhyySwSMgmBcP444RMd7mL2Gu1auckE/s1600/Viaggio+di+Arlo%252C+il.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEir0mS3Z1u9xe70au0VZdPIg7DuaQ4qyPAblxtt7QAGfKNXgcN_tvePZBtw5amxxKZW3UMQK3N1SEJGjsNf_KAOLeLb069jBitJRXvZwMfoSgZ3MJhyySwSMgmBcP444RMd7mL2Gu1auckE/s320/Viaggio+di+Arlo%252C+il.jpg" width="224" /></a>Un film per bambini, dicevano. Troppo infantile per poter piacere a tutti, dicevano. Carino, ma nulla più, dicevano. Opinioni senza nessun fondamento utile ai fini di una analisi interessante, ecco cosa dicevano: quest'ultimo meraviglioso lavoro Pixar, alla faccia dei detrattori, ha una potenza visiva che pochi dei cosiddetti film per bambini riescono a malapena a sognare di avere, soprattutto quando il viaggio non è altro che un pretesto per parlare ed analizzare paure, ansie e senso di inadeguatezza di uno dei più bistrattati personaggi dell'ormai famosa casa di animazione digitale. Arlo, giovane e pavido brachiosauro, si imbatte in Spot, cucciolo d'uomo dai modi rozzi e animaleschi, mentre si allontana troppo da casa a causa della forte corrente del fiume che scorre lì vicino. I due iniziano così un rapporto di amore e odio e di protezione reciproca, avventurandosi in un viaggio che riporterà Arlo a casa (?). Diretto da <b>Peter Sohn</b>, il film in questione è stato adombrato dal già troppo chiacchierato <i>Inside Out</i>, prodotto che ha potuto sfruttare un'onda mediatica molto più forte ed efficace; tuttavia il lavoro in questione non ha nulla da invidiare all'acclamato cartoon ambientato nella mente di Riley, sebbene abbiano poco in comune. Ma non si perderanno righe importanti a tessere un paragone tra i due prodotti, poiché qui si vuole solo sottolineare la potenza visiva già citata nelle prime frasi di questo testo. <br />
<a name='more'></a>Con questo film d'animazione gli autori vogliono omaggiare i grandi classici Disney di una volta con numerosi rimandi, senza però scadere nel mero citazionismo privo di fondamento: da <i>Il Re Leone</i> (ovvi i richiami al film di Minkoff) a <i>Bambi</i> passando per <i>Dumbo</i> e anche per <i>Biancaneve e i sette nani</i>, <i>Il viaggio di Arlo</i> non si dimentica nemmeno delle innovazioni visive apportate al cinema d'intrattenimento dal Re Mida di Hollywood Steven Spielberg, omaggiandolo con un paio di ammiccamenti ai famosi <i>Lo Squalo</i> e <i>Jurassic Park</i> (indispensabile, quest'ultimo, visto che la materia principale del film sono i dinosauri). Impossibile, inoltre, non citare la voglia di sconvolgere il pubblico di riferimento: quanti film per bambini possono vantare il pregio di mettere in primo piano coleotteri decapitati a morsi, ginocchia gonfie e sofferenti, capocciate continue, inquietanti tempeste preistoriche e personaggi che vengono continuamente travolti da fango e acqua? Per non parlare della forza con cui vengono enfatizzate le ansie e le paure di Arlo: dal passato che continua a ritornare e che va necessariamente affrontato, al senso di inadeguatezza che il dinosauro prova nei confronti del mondo, il tutto evidenziato dalle folgori che si rispecchiano negli occhi spaventati del piccolo brachiosauro. Ruoli invertiti, infine, tra umani e animali poiché, se nei vecchi film a cui questo si ispira l'animale antropomorfo regnava sovrano senza l'intrusione dell'uomo, o al massimo era soggiogato da quest'ultimo, in questo lavoro la situazione si ribalta ed è Spot l'animale domestico del dinosauro, metafora di un fato che ci ha eletto a specie dominante sul pianeta per una puramente fortuita casualità di eventi. I due, ignari del <i>what if</i> che stanno vivendo, imparano a convivere, collaborare e comunicare, utilizzando mezzi attraverso i quali non servono parole, ma che riescono comunque a permettere ad entrambi di confrontarsi, capirsi e raccontarsi reciprocamente. E, signori, se questo non è Cinema, ditemi voi cos'è.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-63998297596858998962015-11-12T17:08:00.000-08:002015-11-14T06:36:39.029-08:00Vicky Cristina Barcelona<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgXiIuhxlgotFoascBP_FvM9FPLh6YswoJLFvcFgm5gFgytvcdxwDoS1q8WNqzlrb-QgqNdFTGMt98rffQa0B4xRLzHnS1M6f5Rvl4KaN2z9DMPZEgtyYiNb60jZRBaqiHgMnRo5joRwUzX/s1600/Vicky+Cristina+Barcelona.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgXiIuhxlgotFoascBP_FvM9FPLh6YswoJLFvcFgm5gFgytvcdxwDoS1q8WNqzlrb-QgqNdFTGMt98rffQa0B4xRLzHnS1M6f5Rvl4KaN2z9DMPZEgtyYiNb60jZRBaqiHgMnRo5joRwUzX/s320/Vicky+Cristina+Barcelona.jpg" width="216" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Può una vacanza emozionante e diversa cambiare il nostro punto di vista sulla nostra vita e su quello che vogliamo? Può una persona conosciuta per sbaglio capovolgere i nostri desideri e mettere in dubbio le nostre certezze? Per Vicky e Cristina, americane in vacanza a Barcellona, è stato così: dopo aver passato un fine settimana con un artista iberico di nome Juan Antonio, le due amiche si ritrovano completamente spaesate e del tutto insicure su ciò che prima era il loro modo di affrontare ogni giornata. Vicky, che sta per sposarsi con l'uomo della sua vita, si ritrova emotivamente coinvolta nei confronti di questo misterioso ed affascinante sconosciuto, il quale però prova dei forti sentimenti per Cristina ed è ancora legato alla sua ex-moglie. Come avete potuto notare dalle parole che avete appena letto, questa è una storia di incastri, situazioni, momenti, imprevedibilità, emotività e incertezze, una storia piena di vita e di attimi che abbiamo imparato nel nostro piccolo ad odiare. Odiamo tutto di questo bistrattato film di <b>Woody Allen</b>: odiamo l'ingenuità del marito di Vicky, l'insicurezza di lei, l'euforia di Cristina, la follia di Maria-Elena, l'esagerata esuberanza di Juan Antonio e, più in generale, la disarmante superficialità con cui tutto viene subito dai personaggi messi in scena dal regista americano. Eppure.</div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Non è facile raccontare una storia così imprevedibile, incerta, traballante e sopra le righe, inaspettata come un colpo di pistola sulla mano sinistra, confondente come un terrificante dipinto di arte contemporanea, finta come solo il Cinema ma vera come solo la vita. Questa è l'incredibile forza di <i>Vicky Cristina Barcelona</i>, un film che ha il suo principale pregio nella noiosa monotonia dell'imprevedibilità del caso, nell'inaspettata casualità delle situazioni e nella costante insicurezza in cui vivono i personaggi. Le protagoniste si confrontano inoltre con un paese straniero che le accoglie ma che comunque non le fa proprie, dal quale vengono in qualche modo dipinte come diverse ed estranee. Sottolineando lo stereotipo spagnolo, Allen ci fa notare come, a differenza degli americani, essi agiscano e vivano appassionatamente, mentre gli abitanti d'oltreoceano siano pieni di ansie, paure e incertezze, incapaci di fare un passo falso, spaventati dall'idea di uscire dalle proprie sicurezze. Due stereotipi a confronto che evidenziano ambedue i lati negativi non solo delle rispettive comunità di appartenenza, ma dell'animo umano in generale, troppo passionale da una parte (fino alla follia più pura e irrazionale di<b> Penelope Cruz</b>), troppo inamovibile dall'altra (fino alla metodicità più tediosa di <b>Chris Messina</b>, il marito di <b>Rebecca Hall</b>). E, quando qualcosa arriva a scuotere le nostre instabili certezze, ecco che decidiamo di coglierlo, di lasciarci travolgere e di permettergli di confondere il nostro piccolo mondo stabile, perché solo mettendoci in discussione possiamo riuscire a gettare delle solide basi per quello che vogliamo o per ciò di cui comunque abbiamo bisogno. Alla fine ecco che torna l'amara speranza di quella solida base di cui sopra, che viene riscoperta e confermata solo dopo essere stata scossa adeguatamente, una base fatta di certezze ben più ferree, ma che non necessariamente condurranno a quella felicità tanto ricercata. In fondo, però, come ci ricordano fugacemente le due protagoniste con una rapida linea di dialogo del film, <i>basta che funzioni</i>. Ancora una volta.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-62415080834846827152015-06-18T11:51:00.001-07:002015-12-24T02:38:04.580-08:00Jurassic World<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXaM6ZKou-jxyk7oudr7QZ1Iyi_VfFqlXkKakPcN5q6i89blC20boFI61LGkxZIGH9WDd6qr1L41U3OuVZ3NB9O438CCGNPxeoBVL_9SC8AvkGfpXj771iIvscqmMNfliszhHtVOawEXyG/s1600/Jurassic+World.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXaM6ZKou-jxyk7oudr7QZ1Iyi_VfFqlXkKakPcN5q6i89blC20boFI61LGkxZIGH9WDd6qr1L41U3OuVZ3NB9O438CCGNPxeoBVL_9SC8AvkGfpXj771iIvscqmMNfliszhHtVOawEXyG/s320/Jurassic+World.jpg" width="202" /></a></div>
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Durante tutta la visione di <i>Jurassic World</i>, il nuovo capitolo della popolare saga targata Universal, ha continuato a martellarmi in testa una frase detta nel primo capitolo di questa serie dal personaggio di Ian Malcolm, interpretato da Jeff Goldblum: <i>erano così preoccupati di poterlo fare che non hanno pensato se lo dovevano fare. </i>Questo è in sostanza il mio pensiero sul nuovo film diretto da <b>Colin Trevorrow</b>, che potrebbe anche proporre riflessioni interessanti sulla tecnologia contemporanea e sull'intrattenimento odierno, ma che in sostanza ci fa ponderare solo su come si sia evoluto il blockbuster fino ai giorni nostri. Però per fare questo ci vorrebbe un bel paragone con l'originale <i>Jurassic Park</i>, e questo non è né il momento né il luogo adatto per fare analisi così minuziose, per cui limitiamoci a grattare la superficie e a riflettere sul perché il film di Trevorrow non riesce ad ingranare tutte le marce a sua disposizione. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Il problema sostanziale, tralasciando ciò che il mondo dice sulla trama, sui personaggi e sulle situazioni al limite del credibile, è il periodo d'uscita: 2015, anno in cui ormai si è detto e ridetto tutto nei confronti del cinema blockbuster e d'intrattenimento. Si sarebbe potuto estrapolare un discorso interessante e particolare sulla necessità ormai obbligatoria della CGI e sulla sua importanza, invece ci si ritrova a ripensare alla nuova saga del pianeta delle scimmie, con i suoi primati in computer grafica ben più credibili dei rettili (forse proprio grazie alla stretta parentela con l'essere umano). Si poteva accompagnare lo spettatore attraverso una riflessione evoluzionistica, paragonando dinosauri e uomini, mettendoli sullo stesso piano per poi creare una distanza considerevole tra le due razze, ma anche li la Fox anticipa la Universal. In sostanza, tutto quello che<i> Jurassic World </i>dice, potrebbe dire e vorrebbe dire è già stato detto, fatto e presentato più e più volte in quest'ultimo periodo. Ciò che resta sono quindi i continui rimandi e citazioni che straziano il cuore dello spettatore (su tutti la distesa di brachiosauri morti su colline molto simili a quelle in cui, nel primo film, il professor Grant e la professoressa Sattler li videro pascolare per la prima volta) e che strizzano gli occhi (il T-Rex, ancora oggi, si fa attendere con ansia proprio come un tempo) all'appassionato. Siamo ben lontani però dalla meraviglia e dalla maestria di <b>Steven Spielberg</b> e dei primi due episodi, tuttavia questo nuovo capitolo riesce a sparare abbastanza cartucce da portare a casa il risultato principale, ovvero quello di divertire lo spettatore e di fargli passare una buona visione. Purtroppo però, proprio come questo testo, anche Trevorrow e i suoi collaboratori grattano solamente la superficie di quello che sarebbe potuto essere uno dei blockbuster più interessanti di questa nuova stagione, mentre invece resta semplicemente uno dei blockbuster di punta di quest'anno, probabilmente il miglior incasso del 2015, almeno finché non uscirà un certo film ambientato in una certa galassia lontana lontana.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-9325467503277052772015-05-17T17:50:00.000-07:002015-05-17T17:50:14.883-07:00Il Racconto dei Racconti<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWwiiwY40YC5qfQgndedz0C8utN4qeH8HbpzVNXmgyPrmgv6asHfpujswlUNRnhgG-LuR4fQJpEcnhx01qCBJ952vGXhr0URDjP-96pyk8RFMzOepJFp-mxZ35X2e4Rqu_axko2rPnVkft/s1600/Racconto+dei+racconti,+il.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWwiiwY40YC5qfQgndedz0C8utN4qeH8HbpzVNXmgyPrmgv6asHfpujswlUNRnhgG-LuR4fQJpEcnhx01qCBJ952vGXhr0URDjP-96pyk8RFMzOepJFp-mxZ35X2e4Rqu_axko2rPnVkft/s320/Racconto+dei+racconti,+il.jpg" width="223" /></a></div>
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Alzate la mano: in quanti non davano la benché minima fiducia all'ultima idea di <b>Matteo Garrone</b>? E invece il regista romano si dimostra l'unico degno depositario di quell'eredità fiabesca e antica che ricorda un'Italia dimenticata o addirittura sconosciuta. Sono i luoghi a farla da padrone, ne <i>Il racconto dei racconti</i>, fatica co-prodotta da Italia, Regno Unito e Francia e, dunque, obbligata ad un distacco geografico necessitato dall'universalità che i tre paesi vanno cercando, estrapolando i racconti scelti da Garrone dal contesto partenopeo ed inserendoli in uno linguisticamente più neutrale. Peccato, perché le fiabe raccolte dal libro di <b>Giambattista Basile</b> avrebbero avuto un sapore diverso, se recitate in dialetto napoletano, così come avrebbero avuto un'impatto diverso i personaggi principali, se <b>Vincent Cassel</b> e <b>Salma Hayek</b> (assieme agli altri volti noti, poiché non si può fare una grande produzione senza star) fossero stati sostituiti da qualche sconosciuto attore di teatro. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Al di là di queste inezie (piccoli sassolini nelle scarpe di un pedante chiacchierone virtuale) nel film si respira tutta l'aria dell'Italia che fu, ma anche del cinema che fu e, probabilmente, se le cose continueranno ad andare per il verso giusto, di quello che tornerà ad essere: la mano artigianale di Garrone riporta il cuore dello spettatore verso quel cinema costruito dalla passione e dal lavoro manuale, ed ogni cosa è tangibile e reale, in queste fiabe (c'è chi ha detto che Garrone ha tratto ispirazione dalla serie <i>Il trono di spade</i>, ma gli americani, ne sono convinto, ce li invidiano quei luoghi così veri e concreti, loro che i draghi li devono rinchiudere in una caverna buia per far sembrare che siano veri, al contrario del drago marino di Garrone, esposto alla luce del sole). Così ci si lascia trascinare dai racconti messi in scena, ci si commuove di fronte al forte legame tra i due gemelli nati dallo stesso cuore di drago ma da due madri diverse, si patisce la prigionia assieme alla povera Viola, ma si compatisce anche il povero Orco, rude e grezzo, ma a modo suo gentile. L'unico, vero dilemma, se proprio vogliamo trovarne uno, è la mancanza di tempo per poter sviluppare in maniera approfondita i personaggi. Le storie ci sono (tre), le tematiche anche (dai peccati dei padri che gravano sui figli alle responsabilità che abbiamo nei confronti delle persone a noi vicine e via discorrendo), tuttavia ogni personaggio resta sullo schermo per poco tempo prima di passare all'altra storia e poi all'altra ancora, tornando quindi sulla prima e così via fino alla fine del film. Questo montaggio alternato impedisce, purtroppo, di appassionarsi veramente a qualcuno di questi personaggi (ma forse è un problema tutto personale, visto che anche il tanto acclamato <i>Gomorra </i>mi fece lo stesso effetto), lasciando che lo spettatore venga incantato dai luoghi, dalle ricostruzioni e dalla generosa mano del regista, però senza riuscire a tifare veramente per uno o l'altro dei protagonisti. Chi guarda può dunque scegliere se accettare il film per quello che è e per quello che riesce ad offrire oppure lasciarsi incantare talmente tanto da non riuscire a staccare gli occhi dallo schermo e chiedere, come fa un bambino quando la fiaba è appena finita, che se ne raccontino ancora.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-65110745032149866572015-05-06T04:21:00.001-07:002016-08-20T04:33:48.270-07:00Avengers: Age of Ultron<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtCaxQmKGX0T-qsh0rvWOvDVDuPpjP5xsLOqbBPErSj-7X66vLIAN1hJSivVGNh7DrKwuoKJrIA4VRlh1yHnl9kvoH1-JpL0HV5QkeTL0t0XFhZghat97dmEQMjBeM63BWReQsYbed8YMf/s1600/Avengers+-+Age+of+Ultron.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtCaxQmKGX0T-qsh0rvWOvDVDuPpjP5xsLOqbBPErSj-7X66vLIAN1hJSivVGNh7DrKwuoKJrIA4VRlh1yHnl9kvoH1-JpL0HV5QkeTL0t0XFhZghat97dmEQMjBeM63BWReQsYbed8YMf/s1600/Avengers+-+Age+of+Ultron.jpg" height="320" width="216"></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Un sensazionale piano sequenza che rimanda al precedente capitolo della saga introduce questo film, a significare che questa volta gli Avengers partono <i>assemble </i>per poi sgretolarsi man mano e ritrovarsi nuovamente in corso d'opera. Ma anche che <b>Joss Whedon</b> ricorda con nostalgia l'entusiasmo del primo film, come se dicesse: <i>ecco, vedete questa roba qui? Scordatevela, perché le prossime due ore saranno tutto l'opposto!</i> Mantiene la promessa, il vecchio Joss, e ci offre un prodotto incerto e confuso, caotico e poco goliardico, il quale sembra prendere spunto dal peggior cinema americano piuttosto che da quanto di buono ci sia stato nell'Universo Marvel finora. <i>Avengers: Age of Ultron</i> riporta in scena quindi il supergruppo marveliano per eccellenza, pronto a sconfiggere una nuova terribile minaccia per l'umanità: Ultron, un programma senziente che decide che l'unico modo per salvare la Terra è quello di distruggere la razza umana. Peccato però che a questo machiavellico antagonista non venga dato il giusto spazio intellettuale, il quale si limita ad una pseudo-malvagità fatta solo di parole, che però non trova un effettivo riscontro negli intenti del villain. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Ultron organizza un piano di distruzione globale complesso e minuzioso, ma quando ha tra le mani qualche Vendicatore da poter scotennare preferisce rinchiuderlo in un cella, aspettando che gli altri lo vengano a salvare. Per il resto via alle ripetizioni: la morte sì, ma solo dopo un sacrificio estremo, intere città devastate senza però una sola conseguenza morale (probabilmente paga tutto Tony Stark, chissà...), improbabili storie d'amore e siparietti familiari utilizzati come riempitivo al solo scopo di rendere più interessanti i personaggi meno carismatici del gruppo. Chi ha apprezzato il primo film sapeva benissimo che cosa aspettarsi: action goliardica e ignorante fatta con mestiere. Invece la sorprendente scoperta in sala è stata tutt'altro che positiva: l'action c'era, ma non era né goliardica né fatta con mestiere, era solo ignorante, come se Whedon avesse solo fatto da prestanome prima di abbandonare definitivamente gli studi Marvel. La seconda parte è certamente migliore della prima, ma arrivarci senza essere stati compromessi da tutto ciò a cui si è assistato fino a quel momento è una vera sfida, soprattutto per il fatto che il cast tecnico preferisce puntare su ciò che ha funzionato nel primo film, relegando le vere novità a ruoli prettamente marginali: Visione, i fratelli Maximoff e Ultron non hanno nulla da raccontare o, se ce l'hanno, il tutto viene ridotto ad un brevissimo dialogo rapido ed indolore, che non dà il giusto carisma ai personaggi. Ultron, poi, è un cattivo così abbozzato da non risultare per nulla credibile: la mancanza di un volto da apprezzare e acclamare (com'era invece quello di Tom Hiddleston per Loki) rende il tutto ancora più finto, facendo perdere ai discorsi del villain tutta la potenziale profondità che avrebbero potuto avere, facendo in modo che il pubblico assista, sul finale, ad uno pseudo-scontro tra due facce della stessa medaglia che ricorda molto i dibattiti tra Charles Xavier ed Eric Lensherr, ma senza Patrick Stewart e Ian McKellen a dare importanza alle parole. C'è ben poco di salvabile in questo nuovo prodotto Marvel che, per carità, potrà anche essere migliore di tanti altri blockbuster, ma che lo è solo per gli appassionati dei fumetti, non per quelli del cinema: città che si sollevano da terra e palazzi che crollano a suon di bastonate alzando un gran polverone sono l'emblema di questo prodotto che, in sostanza, non è altro che fumo negli occhi del pubblico.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-24220116477682659172015-04-04T18:24:00.000-07:002015-04-04T18:24:51.457-07:00Into the Woods<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0y72uodtdAE2GnwkAHzWmmrAbpO-i3XMuQQZ1ybiWvrnwj-qRpqcsiDtqe8S3Vil2PpOAv0zh6RaOC75h_QT9lA9nVlqI12raGhnmIxI5NWbJWSD205gGzS1t72PCxfLtVnUErzhY_2q5/s1600/Into+the+woods.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0y72uodtdAE2GnwkAHzWmmrAbpO-i3XMuQQZ1ybiWvrnwj-qRpqcsiDtqe8S3Vil2PpOAv0zh6RaOC75h_QT9lA9nVlqI12raGhnmIxI5NWbJWSD205gGzS1t72PCxfLtVnUErzhY_2q5/s1600/Into+the+woods.jpg" height="320" width="216" /></a></div>
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Chi se l'aspettava, da <b>Rob Marshall</b>, regista piuttosto anonimo e decisamente fuori posto dietro la macchina da presa sul set dell'ultimo <i>Pirati dei Caraibi</i>, uno dei film più interessanti di quest'ultimo periodo disneyano? Dopo la gentile e coraggiosa <i>Cenerentola</i>, gli audaci e buoni eroi (con cattivo buono annesso) di <i>Big Hero 6</i>, e il femminismo sfrenato di <i>Frozen</i>, prodotti carini ma mai fuori dalle righe, pare che la fenice abbia finito di bruciare e, presto o tardi, potrebbe rinascere. I primi sentori arrivano proprio da questo film, ispirato al musical scritto da <b>Stephen Sondheim</b> e <b>James Lapine</b>, ai quali vanno quasi tutti i pregi della riuscita di questo prodotto, riadattato dal secondo sopracitato per il grande schermo. Una maledizione di una strega aleggia attorno alla famiglia del fornaio; per scacciarla dovrà andare nel bosco e recuperare degli oggetti per la strega prima del sorgere della luna blu. Ecco il punto di partenza di questa favola a cui parteciperanno anche personaggi ben più noti di un'anonima strega e di un fornaio con sua moglie: Cenerentola, Cappuccetto Rosso e Jack faranno da corollario ad un film che si prefigge di scomporre e demolire il mito disneyano delle fiabe edulcorate e a lieto fine. </div>
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Non ci sono buoni o cattivi, non c'è il Bene che sconfigge il Male, ma un intruglio di vita vera farcita di qualche elemento fantastico che tutto è tranne che invitante: una normalissima Cenerentola si veste con un kitschissimo abito color oro per andare ad un ballo organizzato in uno dei più anonimi castelli del regno e tenuto in onore di uno dei più ammiccanti principi che abbiano mai calcato un set cinematografico. Già dalla prima scena si nota che le fiabe non saranno le solite: la piccola bambina dal cappuccio rosso si presenta come una ladruncola qualsiasi, ingenua e pronta a cadere nelle grinfie di un lupo inutile e superfluo, seppure kitsch al punto giusto. Quest'ultimo, il kitsch, esagerato in alcune sequenze, è l'elemento chiave che contorna tutto il lavoro di Marshall: i due principi che cantano assieme e si strappano i vestiti, tanto per fare un esempio, assieme al poco invitante immaginario visivo cui si accennava poco fa arricchiscono e migliorano un film che avrebbe certamente potuto dare molto di più, ma che comunque è riuscito ad arrivare sano e salvo fino alla fine, portandosi a casa il risultato. Le note negative arrivano da alcuni momenti eccessivamente lunghi e dilatati, laddove altri invece risultano troppo frettolosi e poco sviluppati, e anche da una totale assenza di un cattivo carismatico. È anche vero che abbiamo una strega che cattiva non è, ma che viene giustificata da un passato burrascoso, e il problema è proprio qui: ad un personaggio così sfaccettato e interessante si sarebbe dovuto dedicare più tempo, parte del quale viene perso all'inizio per trasferire i personaggi nel bosco, tra una rima e l'altra. Marshall, poi, si trova spesso e volentieri a divertirsi con movimenti di camera inutili e fini a se stessi, giocando molto, forse troppo, con il montaggio e limitando in certi momenti la bravura del cast. Regia e attori, protagonisti e personaggi secondari, canzoni e parole, fretta e lentezza: Probabilmente il problema principale di <i>Into the Woods </i>è un poco elegante disequilibrio tra gli elementi in scena, che gioca a sfavore del risultato finale del prodotto; magari con un regista più capace e meno caotico si sarebbe riusciti a sfornare un prodotto degno della buona vecchia Disney. Ma per il momento ci accontentiamo, apprezzando il tentativo di scrostare dal muro la vernice secca e di offrire al pubblico qualcosa che riesce, seppur timidamente, a tirare fuori finalmente le unghie.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-7856813223564837952015-03-25T18:06:00.000-07:002015-03-25T18:06:01.894-07:00Insurgent<div style="text-align: justify;">
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Dopo il pessimo primo capitolo che aprì le danze a questa nuova serie di film dedicata ai giovani adulti in corsa per la sopravvivenza, arriva il nuovo episodio della Divergent Saga, intitolato <i>Insurgent</i>. L'ex regista <b>Neil Burger </b>indossa qui le vesti di produttore esecutivo, lasciando il timone ad un ben più abile <b>Robert Schwentke </b>che, tra alti e bassi, è riuscito a dimostrarsi un discreto mestierante se messo al servizio della giusta sceneggiatura. Con il primo capitolo abbiamo conosciuto i personaggi e scoperto i rapporti che intercorrono nella società governata da un'accigliata <b>Kate Winslet</b>, dove i divergenti sono la razza da distruggere perché impossibile da integrare nell'ordine organizzato e pensato per tutelare la città e la razza umana. In questa seconda parte la storia d'amore tra <b>Theo James</b> e <b>Shailene Woodley</b> comincia a consolidarsi e alcuni dei gruppi della città iniziano a collaborare con il nugolo di divergenti a cui il governo dà la caccia. Riusciranno i nostri eroi eccetera eccetera? <br />
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Intendiamoci, il film varca le sale cinematografiche in un momento di assuefazione da survival teen, young adult, cinecomics e fiabe classiche in live action, e ognuna di queste categorie tenta di rubare il medesimo pubblico all'altra, omologandosi con i prodotti appartenenti al proprio genere senza troppa fatica e inventando ben poco rispetto ai propri avversari. Per fortuna, invece, Schwentke ha l'intuizione di non mandare tutto in vacca e di sfruttare quel paio di effetti sorpresa utili, appunto, a sorprendere lo spettatore, anche quello più previdente, anche quello che è riuscito a capire tutti i vari incastri ben prima che la storia li sveli. Peccato però che trascuri totalmente l'insurrezione presentata addirittura nel titolo del film, lasciando che tutta la rivolta sia semplicemente un trafiletto secondario molto meno importante dell'amore e del sentimentalismo che ricopre dialoghi e sequenze dedicate alla coppia innamorata di protagonisti. Tanti momenti si risolvono frettolosamente e i nuovi personaggi secondari non hanno lo spazio giusto per incuriosire il pubblico (la madre di Theo James, impersonata da <b>Naomi Watts</b>, su tutti gli altri), rimanendo appena abbozzati, certi di avere più spessore nel penultimo capitolo che ci sta già aspettando al varco. In sostanza i difetti ci sono, ma sono difetti non considerabili e giustificati da un genere cinematografico che non vuole assolutamente far riflettere il pubblico giovane a cui è rivolto, sorvolando su problemi sociali, politici ed etici relativi all'argomento trattato. Detto questo, non si può negare ad <i>Insurgent </i>una certa audacia nell'accennare timidamente le suddette tematiche qui e là, spargendo anche un po' di sangue (fuori fuoco) ed esagerando moderatamente con la violenza. L'avete più visto voi, un film del genere, dopo il primo <i>Hunger Games</i>? Intendo un film ben diretto, con delle sequenze d'azione non confusionarie, dei colpi di scena che funzionano e anche l'audace volontà di portare qualcosa in più alle orecchie del pubblico (<i>una volta uccisa Jeanine chi prenderà il suo posto?</i>, il rovesciamento politico, il fascismo e il comunismo sullo stesso piano. Ragazzi miei, non è roba da poco!). Ecco, questo nuovo capitolo della saga tratta dai libri di <b>Veronica Roth</b> osa quel tanto che basta da farsi apprezzare e da infondere quel pizzico di speranza utile a trascinare il pubblico verso la visione dei prossimi capitoli.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-14072934426045842482015-03-18T05:44:00.000-07:002015-03-18T05:44:33.457-07:00Cenerentola<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhzY_Pp0mpkW275n0z33dDYS5-z3pK2eWQfbqUdYJPiRdNgK7y0Tshy7MTpyYt8HKJ9_ZyK5Oxi3m97F8INVB_n9nmhjIQ7POlbZZ7mCQQZdD0I76RPq_4TKRQIuKMkU0OML6H77pLqnrH8/s1600/Cenerentola.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhzY_Pp0mpkW275n0z33dDYS5-z3pK2eWQfbqUdYJPiRdNgK7y0Tshy7MTpyYt8HKJ9_ZyK5Oxi3m97F8INVB_n9nmhjIQ7POlbZZ7mCQQZdD0I76RPq_4TKRQIuKMkU0OML6H77pLqnrH8/s1600/Cenerentola.jpg" height="320" width="216" /></a></div>
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Riproporre in live action nel 2015 l'iconica fiaba di Cenerentola: chi meglio del barocco shakespeariano <b>Kenneth Branagh</b> per gestire questa operazione commerciale targata Disney? Branagh, maestro del teatrale e delle commedie in costume, passa da Mary Shelley alla Marvel per finire nella casa di Topolino e ritrovarsi in mano uno dei più ambiziosi progetti degli ultimi anni: ma la produzione ha fatto male i conti, pensando che qualche fantastica scenografia (ad opera di <b>Dante Ferretti</b>), dei costumi sfarzosi ed incantevoli tempestati di lucine al led (quello della fata madrina) e di Swarovski (quello di Cenerentola), una matrigna da Premio Oscar e dei deliziosi topini in CGI potessero bastare per accontentare un pubblico di età superiore ai sei o sette anni. Invece, purtroppo, non è così. Se da un lato questa nuova <i>Cenerentola </i>può contare sulla sfarzosa composizione di Branagh e dei collaboratori che hanno partecipato al film, dall'altro la sceneggiatura di <b>Chris Weitz</b> non riesce a sostenere l'intero castello costruito attorno ad essa, traballando e barcollando dove invece non dovrebbe. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
In questo modo la parabola di "coraggio e gentilezza" diventa invece sinonimo di "ingenuità e servilismo", poiché sul finale, nel fatidico momento del riscatto morale, la gentilezza viene meno da parte della protagonista a favore di un ben più remunerativo egoismo. Dove avviene realmente, quindi, il passaggio emotivo, il cambiamento di Ella, nel momento in cui decide che alzare la testa e smettere di accusare colpi è comunque affine al significato di gentilezza inculcatole da sua madre poco prima di morire? E in quale preciso momento il palazzo reale diventa più importante della casa di famiglia, dopo che la protagonista ha ribadito più volte di sopportare le angherie della matrigna e delle sorellastre solo per amore di quel luogo, di proprietà dei suoi avi da più di duecento anni e ormai unico ricordo del padre? Il film parte pieno di buoni propositi, bei sentimenti e importanti insegnamenti morali, ma decide di abbandonare con gentilezza quel coraggio che sostiene la prima parte del film a favore di una lieto fine frettoloso, già noto e poco profondo. Nemmeno i dialoghi (trascurando il fatto che Ella parli più coi topi che con le sorrellastre) riescono a veicolare l'audacia del prodotto, la quale risiede per buona parte nella profondità e nelle motivazioni della perfida Madame, matrigna che può contare sull'eccezionale presenza scenica e performance di <b>Cate Blanchett</b>, magnetica donna corrosa dal dolore e incattivita da un'esistenza priva di soddisfazioni, che però non riesce ad avere il giusto spazio e le giuste parole per esprimere tutto il suo disappunto e il suo odio nei confronti di una vita ingiusta. Lo so, quello che sto per scrivere non è il massimo, ma se l'audacia disneyana di un tempo avesse ispirato i produttori e gli sceneggiatori ad approfondire quel ruolo (magari rendendola protagonista, come in <i>Maleficent</i>), non saremmo certamente di fronte ad un capolavoro, ma potremmo comunque discutere di un prodotto più interessante ed apprezzabile di questo scialbo e superfluo film, così fintamente gentile e coraggioso, consigliato solo se avete delle bambine che devono sognare un po'. Ma non esagerate con i sogni, perché la realtà è ben diversa. E Madame lo sa, anche se la voce fuori campo della fata Madrina <b>Helena Bonham Carter</b> occupa tutti gli spazi in cui la povera vedova avrebbe potuto dirlo.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-68225940732902169332015-03-14T04:28:00.001-07:002015-03-14T04:28:59.615-07:00Foxcatcher - Una Storia Americana<div style="text-align: justify;">
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Per la terza volta nella sua carriera <b>Bennett Miller</b> torna al cinema biografico per raccontare parabole americane che rappresentano gli Stati Uniti e il loro lento ma inesorabile decadimento culturale e sociale. Mark Schultz, John Du Pont e Dave Schultz diventano quindi metafore rappresentative di speranze perdute, sogni infranti, desideri inarrivabili e mal riposta voglia di dimostrare di essere qualcuno che in realtà non si è. Così fa il personaggio di <b>Channing Tatum</b>, Mark, ma anche quello di <b>Steve Carell</b>, John, i quali percorrono due binari incidenti, che si incontrano per un attimo e che poi si allontanano l'uno dall'altro, prendendo strade totalmente opposte. In mezzo a loro c'è Dave, ovvero <b>Mark Ruffalo</b>, fratello di Mark, nonché suo mentore e punto di riferimento nella vita, senza il quale Mark prova a vivere, ma inutilmente poiché, tornando al discorso di prima, non si può essere quello che non si è. Ma i fratelli Schultz sono solo un tassello in questa contorta storia dell'America, della quale il vero protagonista e senza dubbio il filantropo Du Pont, ossessivamente influenzato da una figura materna che cerca disperatamente di allontanare da sé, proprio come Mark fa con il fratello. e sempre desideroso di voler dimostrare di essere indipendente da lei, proprio come Mark con Dave. <br />
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Così si improvvisa coach sportivo e diventa finanziatore di un team di lotta in casa sua, per tagliare con il passato, con le radici, e cercare emancipazione. Ma il passato è sempre lì, da una parte a ricordarci chi siamo e che cosa dovremmo essere (la madre di John), dall'altra a sostenerci, comprenderci e aiutarci ad andare avanti (il fratello di Mark). Due storie apparentemente simili che però hanno ben poche cose in comune, le quali si fanno comunque simboli di un'America disillusa e ricca di sogni infranti, così sicura di sé da essere convinta di poter uscire dai binari senza pagarne le conseguenze, un'America totalmente diversa rispetto a quella che il cinema d'oltreoceano ci presentava decenni fa. L'altra faccia degli Stati Uniti raccontata, insomma, da un Bennett Miller ispirato come non mai che, se da un lato compone un quadro di rara bellezza tenuto insieme da alcuni momenti davvero indimenticabili (Tatum isterico nella stanza d'albergo su tutti gli altri), dall'altro decide, forse volutamente, forse necessariamente, di sacrificare il ritmo della narrazione per poter raccontare la sua America e la sua storia, perdendo quindi anche un protagonista unico, ma non ottenendo, purtroppo, tre protagonisti, bensì tre co-protagonisti. La storia non si basa infatti sui personaggi ma sui loro rapporti, a volte simili, a volte differenti, a volte conflittuali, a volte amichevoli, senza però avere un vero centro narrativo da cui diramare poi tutto il resto. Attenzione: questo non è necessariamente un lato negativo, anzi, ciò dimostra ancora di più l'importanza e l'audacia di una scelta registica ben imposta già nel momento della scrittura del film. Tuttavia è un piccolo appunto che mi sento di dover evidenziare per quelli che, come me, potrebbero restare non pienamente soddisfatti dalla visione di questo film, il quale potrebbe non arrivare completamente, nonostante i numerosi pregi descritti in un banalissimo testo che sorvola su tanti punti validi (le maschere ricalcate sopra i volti e i corpi degli attori, la quasi totale assenza di musiche, giusto per citarne un paio) che meriterebbero un approfondimento ben più importante rispetto a quanto io possa fare su questo misero blog.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-42440760496352397532015-02-26T13:43:00.004-08:002015-02-26T13:43:55.941-08:00Reality<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiv-hqk9gLaF5D6KV-2as7Y5ziI_AjPhXxNRkvsMqBoPnJSmQz2VFM35BNxJQudCJ9ZDKAcPmCs4jrRgNQPPPijfKAWczb6ZmbvViBwpKBstOXKsYzGj23S6JXOu-d7GwPBRKmELAHIstjB/s1600/Reality.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiv-hqk9gLaF5D6KV-2as7Y5ziI_AjPhXxNRkvsMqBoPnJSmQz2VFM35BNxJQudCJ9ZDKAcPmCs4jrRgNQPPPijfKAWczb6ZmbvViBwpKBstOXKsYzGj23S6JXOu-d7GwPBRKmELAHIstjB/s1600/Reality.jpg" height="320" width="224" /></a></div>
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C'è e ci sarà sempre chi continuerà a sostenere che <i>Gomorra </i>è meglio, che <b>Matteo Garrone</b> con il suo precedente film ha raccontato di più e in maniera più perfetta uno spaccato di vita contemporanea e bla bla bla. Con <i>Reality </i>il regista torna nuovamente nei luoghi partenopei per parlare questa volta di una storia apparentemente meno scandalosa ma, se possibile, addirittura più universale di quella raccontata nel suo film precedente: è la storia di Luciano, pescivendolo come tanti, che prova ad entrare al Grande Fratello, facendo un provino quasi per gioco, il quale però cambierà radicalmente la sua vita, trascinandolo in un lento degrado da cui i parenti tenteranno di farlo uscire. Come con <i>Gomorra</i>, anche questa volta Garrone porta in scena un problema tutto contemporaneo, sociale e del quale tutti fingiamo di ignorare l'esistenza, ovvero la <i>sindrome da GF</i>, come la chiama Maria, la moglie di Luciano, prendendo in prestito le parole del medico che gliel'ha diagnosticata. In parole semplici: l'esserci, il partecipare (in questo caso al GF, ma più in generale ad ogni cosa che c'entri con una telecamera) diventa non solo importante, come ci ricorda il famoso motto, ma addirittura essenziale. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
L'essere un personaggio si converte in una necessità primaria, in un pregio da sfruttare che allontana sempre di più l'individuo dalla realtà, portandolo alla stessa velocità verso quella che potremmo definire la realità, una realtà parallela filtrata da obiettivi e schermi grandi e piccoli, importante più dell'essere se stessi. Così assistiamo alla trasformazione di <b>Aniello Arena</b>, improbabile Totò (la somiglianza è sorprendente) che, se all'inizio della storia si divertiva a sfruttare la sua solarità e le sue capacità estroverse per far divertire la gente senza chissà quale ambizione, nel corso del suo cambiamento arriva ad immolarsi in tutti i modi pur di entrare nella casa del Grande Fratello, ed è fantastico notare come Garrone sovrapponga la fede con l'idolatria attraverso ironici e grotteschi dialoghi equivoci, dove se uno intende la televisione l'altro capisce Dio e viceversa, dove le offerte ai poveri non sono fatte per buon cuore cristiano ma perché le telecamere lo stanno spiando e Luciano vuole quindi comportarsi nel modo più giusto per far colpo sugli eventuali osservatori. Noi, inermi di fronte allo schermo, assistiamo a questo lento degrado interiore e, se in un primo momento possiamo dubitare anche a noi assieme al protagonista della casualità della presenza di due signore di Roma che vanno a comprare del pesce in un quartiere napoletano, più avanti, alla comparsa di quello strano grillo dentro la casa del protagonista, non abbiamo più incertezze: Luciano si è ormai perso in un mondo fittizio che non gli permette più di accontentarsi di ciò che gli sta intorno, lo estrania continuamente dalla realtà, lo allontana dai suoi affetti e fa in modo che si auto-imponga dei comportamenti che non sono i suoi, trasformandolo in un personaggio più che in una persona, il quale potrà sentirsi a suo agio solo nel momento in cui sarà entrato in quella Casa, davanti a quelle telecamere, girovagando all'interno di quelle mura e stendendosi in una sdraio luminescente del giardino. Un mondo alternativo attraente ed invitante, fatto di finzione e bugie, falsità e filtri; un concetto un po' retrò se lo si limita ai soli reality, qualcuno potrebbe pensare. Ma al giorno d'oggi quanti altri mondi alternativi abbiamo? Quanti altri filtri e finzioni ci attraggono, ci invitano, ci incuriosiscono e fanno parte di noi? In quanti modi possiamo trasformarci da persone a personaggi e diventare qualcun altro senza accorgercene? La realità diventa più importante della realtà giorno dopo giorno, e noi comprendiamo e assimiliamo il cambiamento senza poter fare niente, come i parenti e gli amici di Luciano.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-65493137789662092612015-02-22T10:08:00.002-08:002015-02-22T10:08:32.923-08:00Il Settimo Figlio<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqTPO7IybOXmLCEARxIPqxJA7SwV6T7P3ph1PJCBUExOIhMQmtrseLko7etjEZQ502WmmourQIfmAoZRPjkVLQ3ZN2_fo3xVOkRIS0rxnshCx8MxA2zku8i7sBzgkQ85qyJa3yMAsUGQ0q/s1600/Settimo+Figlio,+il.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqTPO7IybOXmLCEARxIPqxJA7SwV6T7P3ph1PJCBUExOIhMQmtrseLko7etjEZQ502WmmourQIfmAoZRPjkVLQ3ZN2_fo3xVOkRIS0rxnshCx8MxA2zku8i7sBzgkQ85qyJa3yMAsUGQ0q/s1600/Settimo+Figlio,+il.jpg" height="320" width="216" /></a></div>
Che cosa si ottiene quando si decide di mettere in scena un film fantasy dopo che il genere ha ormai dato tutto quello che doveva dare e detto tutto quello che doveva dire con tante e ripetitive saghe che, nonostante quel briciolo di originalità insito in loro, non sono riuscite ad attecchire sul pubblico? Penso ai continui flop de <i>Le Cronache di Narnia</i> (dal primo in poi in costante caduta libera qualitativamente ed economicamente, fino allo stop della serie) e, soprattutto, a <i>La bussola d'oro</i>, che non ha mai ottenuto il via libera per il suo sequel, nonostante i buoni presupposti. Ecco che Hollywood ci riprova di nuovo con <i>Il settimo figlio</i>, film firmato Universal e arricchito da un cast di tutto rispetto, con il bel faccino di <b>Ben Barnes</b> a sostenere la locandina e il nome altisonante di <b>Jeff Bridges</b> ad attirare il pubblico; assieme a loro la bravissima <b>Julianne Moore</b> nei panni di una strega cattiva come poche. Nel senso che le altre streghe del film non sono poi così cattive, dunque continui a chiederti continuamente il perché di tutta questa bolgia tra maghi e streghe, di questa terrificante guerra che non dovrebbe esistere se, in fondo, le creature malvagie non sono tutte malvagie e i maghi sono quasi tutti estinti. <br />
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C'è dell'astio dovuto a dei trascorsi, dunque, tra Bridges e la Moore, ma questi trascorsi non vengono mai approfonditi e le sottotrame sono appena accennate, lasciando spazio alla scontatissima trama principale del settimo figlio di un settimo figlio, nato da una strega e apprendista dell'ultimo mago, il quale si innamora di una mezza strega che parteggia per il nemico più per diritto di nascita che per posizione politica. E nemmeno questa viene conclusa, una volta giunti alla fine, probabilmente per lasciare spazio ad un potenziale sequel qualora gli incassi lo permettano. Se da un lato, quindi, la sceneggiatura di <b>Steven Knight</b> e <b>Charles Leavitt</b> risulta incompiuta e superficiale, dall'altro ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa dalla regia del russo <b>Sergey Bodrov</b>, il quale purtroppo non riesce ad offrire nulla di nuovo o di particolare. I mostri, le ambientazioni e il design risultano molto, troppo derivative da tantissime saghe fantasy già viste (<i>Il Signore degli Anelli</i> su tutti, con il quale ormai nessuno può evitare di confrontarsi. Ma tiriamo in ballo anche qualche ammiccamento a <i>Harry Potter</i>, già che ci siamo) e sullo schermo non si nota niente che possa colpire l'occhio di uno spettatore capace di accontentarsi anche solo di qualche simpatica innovazione visiva. Dunque tutto si riduce a qualche papabile combattimento tra maghi e streghe, che purtroppo non sfruttano la componente magica, la quale avrebbe potuto proporre delle battaglie quantomeno epiche, che invece si limitano alle classiche scazzottate e bastonate. Nessun duello magico, nessun singolar tenzone e nemmeno un'azzuffata tra draghi e uomini come si deve; solo botte da orbi in un film che in realtà avrebbe dovuto offrire tutt'altro. Risultato scadente per un cast interessante, consigliato solo ai fanatici del genere a cui va bene tutto, ma decisamente sconsigliato in 3D: superfluo e inutile tanto quanto tutta la storia. </div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-7589014763375382212015-02-12T02:40:00.001-08:002016-08-20T05:37:19.371-07:00Birdman o (L'imprevedibile Virtù dell'Ignoranza)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg6Pl7ZBjt_vYnldGxTjSTSut7C39L3Xrgzf7kFhlR6KW1sSLN3dDDMn8ReQchAb5Ww8PcrQ2XufiqSN3viyrXMkrkNci6ZTfsfS5lQcWMs5p6_Huo2oL43Kzx7XF5ZBCFaD7n_70GVI6c5/s1600/Birdman.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg6Pl7ZBjt_vYnldGxTjSTSut7C39L3Xrgzf7kFhlR6KW1sSLN3dDDMn8ReQchAb5Ww8PcrQ2XufiqSN3viyrXMkrkNci6ZTfsfS5lQcWMs5p6_Huo2oL43Kzx7XF5ZBCFaD7n_70GVI6c5/s1600/Birdman.jpg" height="320" width="204"></a></div>
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C'è un attore, Riggan, che vuole dimostrare di essere tale imbastendo uno spettacolo a Broadway, ma nella testa ha questa vocina (o vociona, che dir si voglia) che continua ad evidenziare quanto la sua vita dipenda dai grandi successi commerciali di un tempo. Riggan, nei lontani anni '90, indossava infatti il costume di Birdman, supereroe protagonista di una saga cinematografica commerciale della quale ancora oggi si porta dietro gli strascichi: il suo alter ego è ciò con cui ogni giorno deve scontrarsi in camerino mentre tutto il resto del mondo è fuori a ricordargli quanto sia inutile e superflua la sua esistenza e quanto poco abbia realmente combinato nel mondo. Satira splendente sulla situazione odierna dei cinefumetti, del cinema e degli attori, <i>Birdman </i>è un apparente unico piano sequenza che racconta la storia di questo attore frustrato che deve farsi riconoscere a livello artistico, discutendo con i fantasmi del suo passato, interiori ed esteriori. C'è tanta carne al fuoco nel nuovo film di <b>Alejandro González Iñárritu</b>, forse troppa; il regista vuole mettere in scena non solo un attore in cerca di apprezzamenti, ma un uomo fallito che in vita sua non ne ha combinata una giusta, che cerca di ripristinare i rapporti con sua figlia (<b>Emma Stone </b>in stato di grazia), che non riesce a voltare pagina anche se vorrebbe tanto farlo, ossessionato dai suoi colleghi che vengono apprezzati dalla critica (<b>Edward Norton </b>che, in paio di momenti, ruba la scena a <b>Michael Keaton</b>) e dal pubblico (tutte quelle celebrità a cui il film fa un chiaro e netto riferimento). </div>
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Nonostante i plausi meritati e doverosi al cast tecnico e artistico, su tutti il direttore di fotografia <b>Emmanuel Lubezki</b>, c'è qualcosa che scricchiola e stride all'interno della trama, qualcosa che, per chi scrive, ha disturbato la fluidità del prodotto. Probabilmente l'eccessivo manierismo di Iñárritu che gli ha imposto un piano sequenza forse troppo presente (la Mdp è percepibile tanto quanto Keaton e Norton, e non so quanto questo possa essere un bene per ciò di cui si parla nel prodotto) e da una colonna sonora (la tanto decantata batteria di <b>Antonio Sanchez</b>) che rimbomba continuamente nella testa del protagonista, ma anche in quella dello spettatore. Scelte audaci, queste, che indubbiamente servono a fare discutere il pubblico, ma che allo stesso modo impongono a chi chiacchiera su queste cose di prendere una posizione netta su di esse, così come l'autore la prese quando decise di fare il film in questo modo, e l'idea di chi sta riflettendo su questo blog è che forse il regista abbia esagerato. Troppo manierismo per autocompiacimento, ma non solo: uno dei problemi del film è quello di aprire tanti discorsi sul cinema commerciale, sull'arte contemporanea, sulla critica e sugli attori lasciandoli però tutti in sospeso, incerti, incompleti. Ecco, di nuovo, Iñárritu che eccede nell'intraprendere diverse strade ma senza decidere quale delle tante percorrere fino alla fine, o semplicemente il discorso è talmente vecchio che ha perso la sua importanza e la sua credibilità. Attori/celebrità? Arte e commercio? L'implosione di Hollywood? Le persone che diventano i personaggi? Polanski, Cronenberg e anche Assays hanno, in un certo modo, raccontato già tutto negli ultimi anni, e Capitan America/Chris Evans ha ormai dimostrato che dai kolossal nascono anche grandi film con attori validi (dall'eroe a stelle e strisce a <i>Snowpiercer</i>). Certo, è anche vero che Robert Downey Jr. è solo la faccia che fa Iron Man e Sherlock Holmes senza sforzarsi troppo, ma se per analizzare un mondo si prendono solo le informazioni che fanno comodo per avvallare la propria tesi, il risultato traballa. E il film risulta semplicemente la storia di un attore fagocitato dalla società che pretende di voler combinare l'arte con la fama. Un battuta della compagna di Riggan, Laura, recita più o meno così: <i>Se avessimo fatto un figlio probabilmente avremo cresciuto un serial killer, o Justin Bieber</i>. Ecco, Riggan è Justin Bieber, ma con la pretesa di voler essere Michael Jackson; è attorno a questo che ruota tutto il magnifico e ben costruito lavoro di Iñárritu che, purtroppo, non incide come dovrebbe, ma che si lascia apprezzare e godere, com'è giusto.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-45785817299883104292015-02-10T16:55:00.000-08:002016-08-20T03:34:25.150-07:00American Sniper<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEglDBqR7F6poCumcaHKFJQidKmxZa4vdxfYroAezvNDO_rNMxW-jtPlKG1XL1gUGipjTBatfmT32-zEzHQR2r60d_ejbQEAk6ym4krKqb1WxjHZgOy3ZiemVgcnutI8V3gV5JpM-qeT9NZA/s1600/American+Sniper.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEglDBqR7F6poCumcaHKFJQidKmxZa4vdxfYroAezvNDO_rNMxW-jtPlKG1XL1gUGipjTBatfmT32-zEzHQR2r60d_ejbQEAk6ym4krKqb1WxjHZgOy3ZiemVgcnutI8V3gV5JpM-qeT9NZA/s1600/American+Sniper.jpg" height="320" width="216"></a></div>
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Eccolo di nuovo in prima fila, il veterano <b>Clint Eastwood</b>, che per la terza volta di seguito parla di storie di vita vissuta, ispirandosi nuovamente a fatti realmente accaduti. Dal grande americano J. Edgar Hoover ai The Four Seasons, il regista passa ora a raccontare le prodezze di Chris Kyle, eroe nazionale per via del suo ineguagliabile talento con il fucile. Kyle è infatti considerato una leggenda (come sottolinea il suo pseudonimo) per gli Stati Uniti: è il più letale cecchino presente sul campo di battaglia in Iraq, dove "i cattivi" stanno dando del filo da torcere ai "buoni". Arriva fuori tempo massimo, questo testo, ma forse arriva nel momento più opportuno, quando tutti hanno ormai sputato la loro sentenza su <i>American Sniper</i>, esaltandolo a capolavoro oppure affossandolo ad americanata. Questi ultimi dovrebbero pensare al medesimo film, con la medesima storia e le medesime dinamiche, provando a metterlo in mano a registi diversi da Clint Eastwood, e cominciare a costruire la vera americanata: spari, bombe, ralenti ad ogni minuto, Chris Kyle circondato dai nemici ma ben capace di farli fuori tutti da solo (un po' alla <i>Orgoglio di una nazione</i>, il film nel film di<i> Bastardi senza gloria</i>, per intenderci), il finale palesato davanti agli occhi di tutti, magari con una bella caduta a terra del corpo di Kyle e un tonfo ovattato della sua testa che sbatte sul pavimento, qualche violino, niente immagini di repertorio e, soprattutto, niente vita vera.</div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Niente moglie, niente figli, niente alternanza Iraq/America per enfatizzare il distacco e l'incomprensibilità di certe scelte, nessun cenno ai suoi problemi, ai suoi dubbi, niente di tutto questo. Clint Eastwood, uomo prima e americano poi, mette in mostra l'essere umano Chris Kyle e lo uccide molto prima, con quel primo piano datato 11 settembre 2001, nel momento in cui il terrorismo invade la mente degli americani e i loro confini, mutando completamente l'immaginario collettivo di una nazione. È lì che l'uomo muore e nasce il cecchino, la macchina da guerra che prima non c'era e che ora è pronta a sparare su uomini, donne e bambini purché rappresentino una minaccia per i suoi compagni, i suoi fratelli. Timoroso, dubbioso e teso, ma anche letale, sicuro e fermo, pronto a svolgere il suo compito senza esitare un secondo, mentre sua moglie resta a casa a preoccuparsi se riuscirà mai a riavere indietro l'uomo di cui si è innamorata. Questa è la guerra, cari spettatori, sembra suggerirci Clint Eastwood, questo è ciò che causa nelle persone: si perdono, cambiano a tal punto da arrivare a pensare che un cane addomesticato è appena diventato un nemico da sconfiggere. E non c'è via d'uscita, cari spettatori, perché dalla guerra non si sfugge: civili, militari, uomini, donne, bambini, la guerra non risparmia nessuno, nemmeno quando si è tornati in patria. C'è un solo modo per far sì che essa cessi di tormentarci, e Clint non lo mostra, ma lo scrive: lo spara in mezzo ad uno schermo nero come un proiettile, a metà tra le immagini di finzione e quelle di repertorio, quasi a volerci suggerire che la linea tra le due questa volta è molto sottile, che fuori da quella piccola sala cinematografica sicura c'è una guerra che non dobbiamo ignorare, nonostante le nostre insignificanti e stupide vite cerchino di distrarci da tutto l'orrore del mondo.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvDQiDZIq59GFAdN2B23msGe2gS_DfT3040l5yvJRD1LVZp83fo2EtzApv5g3P3sAByrZL6SlqebJxnQKwxxX4Y2R3-MYRpksuqpwIkHgtzRNtzW_iCTYno8-l4cqRbJF15jR5vkabqehd/s1600/Hungry+Hearts.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvDQiDZIq59GFAdN2B23msGe2gS_DfT3040l5yvJRD1LVZp83fo2EtzApv5g3P3sAByrZL6SlqebJxnQKwxxX4Y2R3-MYRpksuqpwIkHgtzRNtzW_iCTYno8-l4cqRbJF15jR5vkabqehd/s1600/Hungry+Hearts.jpg" height="320" width="222" /></a></div>
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Si stenta a credere che sia un film italiano, questo <i>Hungry Hearts</i>, per via dei suoi toni così nordeuropei che rimandano, a tratti, al più datato Roman Polanski (un paio di volte volte mi è pure venuto da pensare che il film fosse un <i>what if</i> di <i>Rosemary's Baby</i>, ma lasciate perdere i miei voli pindarici). La trama è di una semplicità quasi imbarazzante: Jude e Mina si incontrano, si piacciono, si sposano, hanno un bambino e, assieme ad esso, nascono di conseguenza delle divergenze sulla crescita e la nutrizione del neonato. Lei è vegana, ma di quelle convinte, assolutiste e autoritarie, quasi dittatori che impongono il loro dogma a chi sta loro intorno. Tuttavia <b>Saverio Costanzo</b>, pur prendendo una posizione dichiarata e netta nei confronti di questa scelta di vita, non la accusa direttamente, aggira anzi in maniera intelligente l'ostacolo decidendo di dare ad un medico le parole più adeguate per esprimere il concetto chiave: <i>Non c'è niente di male, ma che cosa mangia il bambino? </i></div>
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Con queste parole Costanzo sottolinea che il problema non è la nutrizione o una scelta decisa di vita, ma l'assolutismo e il bigottismo che porta certe persone a fare della propria alimentazione quasi una fede (non a caso <b>Adam Driver </b>si fermerà in una Chiesa per nutrire di nascosto il bambino con del prosciutto), escludendosi da un mondo che, riprendendo le parole del protagonista, è sopravvissuto comunque per molti anni senza chiudersi sotto una campana di vetro per paura di ogni piccola onda elettromagnetica. Costanzo rappresenta, tra l'altro, magnificamente la suddetta campana, giocando con ottiche e cambi di fuoco in maniera eccelsa, straniando lo spettatore e rendendolo partecipe della narrazione e delle sensazioni del protagonista trasformando a suo piacimento gli spazi angusti all'interno dei quali cresce questa contorta e preoccupante storia d'amore e di maternità, una maternità che necessariamente obbliga la madre a seguire incondizionatamente il suo cuore, convinta che qualunque cosa faccia sia per il bene del bambino. Non sto parlando solo di <b>Alba Rohrwacher</b>, ma anche di <b>Roberta Maxwell</b>, la quale alla fine del film si lascerà andare all'amore materno seguendo quella che per lei è l'unica strada possibile per il bene di suo figlio, dimostrando quanto l'amore materno possa comportare scelte drastiche ed eticamente sbagliate, e anche come non sia mai possibile che il proprio punto di vista sia quello giusto. Disperati e bisognosi d'aiuto, i personaggi di questo film vengono lasciati alla deriva, in balia di loro stessi, da un mondo che non ha a cuore i bisogni primari delle persone che lo compongono, le quali necessitano solo di un po' di sostegno, siano essi dei padri che devono lottare contro la forza autoritaria imposta dalla donna oppure madri rinchiuse nell'oblio delle loro convinzioni. Costanzo mette in scena questo e molto altro, in un film dai toni opprimenti, malsani e anche un po' thriller, che deve sicuramente essere visto più volte per poter essere assimilato appieno.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-32149808786953283012015-01-13T08:05:00.000-08:002015-01-13T08:05:05.685-08:00La Teoria del Tutto<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjLpu_U5OgDC4zKqrt-A3-dNzitRNc14OKrdos2SQyoA3axXC1kySy4D5qLSmKQcFRZemHEzo-GL2qYTLIf1vjhR9kTxC5DrzmeqRSV04UPwJSbnwE8rrZZehJFuGnmcLdM8pFKmB-YInys/s1600/Teoria+del+tutto,+la.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjLpu_U5OgDC4zKqrt-A3-dNzitRNc14OKrdos2SQyoA3axXC1kySy4D5qLSmKQcFRZemHEzo-GL2qYTLIf1vjhR9kTxC5DrzmeqRSV04UPwJSbnwE8rrZZehJFuGnmcLdM8pFKmB-YInys/s1600/Teoria+del+tutto,+la.jpg" height="320" width="216" /></a></div>
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Le prime settimane del 2015 hanno visto susseguirsi sul grande schermo una serie di biopic uno dietro l'altro, da quelli d'autore (Tim Burton e Clint Eastwood, più o meno validi, ai posteri l'ardua sentenza), a quelli da Oscar come <i>The imitation game</i> e, in ultimo, questo <i>La teoria del tutto</i> di <b>James Marsh</b>. La differenza tra i due sopracitati? Uno è ben fatto, l'altro no. Intendiamoci, il film non sarebbe neanche questo male assoluto e, con un timoniere differente, sarebbe risultato semplicemente il classico film biografico ammiccante e arraffa-premi, con un cast valido (<b>Eddie Redmayne</b> eccessivamente esaltato che, nel suo compito, si limita a fare una eccelsa e perfetta caricatura di Stephen Hawking), delle musiche piene di viole, archi e impostazione minimale nelle strofe e nella composizione, una fotografia che capirai, cosa vuoi dirgli, è inglese quindi è bella e, in ultimo, una ricostruzione storica (per quanto poco si vada indietro negli anni) davvero niente male. Le pecche sono due, la prima è che il film è ambientato in un arco temporale di circa vent'anni (ipotizzo, non ci sono riferimenti cronologici nella pellicola) ma i personaggi non sembrano mai invecchiare, facendo scivolare la storia in un incredibile eterno presente. </div>
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La seconda, invece, è la peggiore di tutte, la regia: con un cast così valido (niente di eccelso, per carità, ma pur sempre un ottimo gruppo di attori molto buoni) e una messa in scena ben costruita, James Marsh preferisce insistere sugli ostinati dettagli delle mani e dei piedi di Stephen Hawking, il povero malato che deve combattere contro la malattia del motoneurone. Perdonate il sarcasmo velato, ma spiattellare in continuazione davanti agli occhi del pubblico gli arti del protagonista che degenerano cercando disperatamente di commuovere chi sta guardando, ammiccando con quei dettagli così ripetuti e proposti in continuazione creano in realtà l'effetto contrario: se l'intento è quello di rendere lo spettatore partecipe alle difficoltà del nucleo familiare di Hawking, con questo espediente non si fa altro che sottolineare la falsità di ciò a cui si sta assistendo, palesando continuamente la presenza della macchina da presa. Si sopportano le sviolinate di <b>Jòhann Jòhannsson</b> e delle sue musiche, i dialoghi a tratti eccessivamente costruiti, i riferimenti religiosi e i simbolismi cristologici (croci, croci ovunque! Perfino nel giardino di Sua Maestà la Regina!), ma non si può sopportare la regia e, in parte, il montaggio di <b>Jinx Godfrey</b> che vuole a tutti i costi enfatizzare la già citata malattia del motoneurone che lascia degenerare progressivamente gli arti del protagonista. Questa scelta non solo infastidisce lo spettatore, ma addirittura rende vani tutti gli sforzi degli attori che, nonostante l'impostazione classica, risultano sensazionali nei troppo pochi primi piani che vengono loro offerti (<b>Felicity Jones</b> è stupenda nel suo intento di trattenere le lacrime e stringere in continuazione i denti, e di Redmayne se ne è parlato anche troppo). In sostanza una deludente occasione sprecata, che non sfrutta il suo vero potenziale, anzi lo nasconde per strizzare in ogni momento l'occhio allo spettatore cercando di convincerlo a piangere, cosa che non accade mai.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-21975253286010303452015-01-11T06:51:00.000-08:002016-08-20T05:31:33.131-07:00Big Eyes<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8IODeZjGLevtTEq8iY1UqHEVVya54A7TCeyZ90Jy1zutZ7PchnpfynpTw_FtM3WJUoz36DODzNwuVG7eUVHfSdfYBDBzYDX-tJGzwY2vpTnTNfNwNyw0BqBvu_S9oyutL3bvCPjYotuyC/s1600/Big+Eyes.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8IODeZjGLevtTEq8iY1UqHEVVya54A7TCeyZ90Jy1zutZ7PchnpfynpTw_FtM3WJUoz36DODzNwuVG7eUVHfSdfYBDBzYDX-tJGzwY2vpTnTNfNwNyw0BqBvu_S9oyutL3bvCPjYotuyC/s1600/Big+Eyes.jpg" width="215" /></a></div>
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Potremmo stare qui per ore a descrivere i non trascurabili difetti di <i>Big Eyes</i>, primo tra tutti la sceneggiatura che non riesce a dare vera importanza ai personaggi di contorno e che si limita a raccontare una storia principale senza però chiudere tutte le eventuali sottotrame. Potremmo stare qui per ore a discutere su un cast non eccelso, su<b> Christoph Waltz </b>macchietta di se stesso (assolutamente falso), su tante cose che si leggono un po' ovunque, ma perderemmo la possibilità di parlare di <b>Tim Burton</b>, regista che ancora oggi riesce ad incantare il suo (e sottolineo <u>suo</u>) pubblico con un lavoro certamente non eccelso, ma pieno dei suoi tratti distintivi nonché di riferimenti a se stesso impossibili da non cogliere. È come se il regista avesse parlato del suo percorso, della sua carriera e dei suoi lavoro piuttosto che di Margareth Ulbrich, sposata per la seconda volta con Walter Keane, truffaldino falso artista interessato al solo profitto.<br />
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Come due facce della stessa medaglia (un'inquadratura meravigliosamente grottesca esplica questa situazione: un dipinto per metà incompleto riempie parte della scena e, specularmente al suo fianco, moglie e marito si guardano e si baciano), i coniugi imbastiscono una frode dichiarando al pubblico che i famosi dipinti dagli occhi grandi sono opera di lui, quando invece è lei la vera autrice e madre di quei poveri orfanelli così tristi (un'ombra, che prima non esisteva sui ritratti, inizia ad aleggiare attorno a quei giganteschi occhi, sempre più accusatori, sempre più tristi). Walter si lascia trasportare dai soldi e dalla fama sovrastando la moglie (proprio come la performance di Waltz sovrasta quella di <b>Amy Adams</b>, per molti un errore ma in realtà una scelta registica atta a rappresentare la situazione in famiglia), ma Margaret inizia a sentirsi in colpa per aver svenduto così tanto i suoi prodotti - i suoi figli - e così, con i suoi occhi spaesati, il suo sguardo confuso e soggiogato dal beffardo e onnipresente sorriso del marito, decide finalmente di dire la verità. La domanda è una: dov'è Burton? In molti l'hanno cercato nei mancanti tratti dark/fantasy, trovandone poco, altri l'hanno sovrapposto alla figura di Margaret, pittrice costretta a vendere la sua arte perché vuole anche lei il suo inverno caldo. In realtà, se si cerca attentamente, Burton è in tutto il resto ma, soprattutto, in quel quadro incompleto cui accennavo qualche parentesi fa, in quel dipinto che raffigura per metà l'autrice e per metà suo marito, perché Burton è sì un artista ma anche un imprenditore, è un regista ma anche un produttore, e chi meglio di lui sa vendersi alle grandi major hollywoodiane? Dunque, se nei vecchi acrilici della signora Keane possiamo rivedere <i>Edward mani di forbice</i>, <i>Ed Wood</i> e magari anche <i>Mars Attacks!</i>, nelle cartoline, nei poster e nelle fotocopie di essi ci sono <i>Planet of the Apes</i>, <i>Alice in Wonderland</i> e forse anche un po' de <i>La fabbrica di cioccolato</i> (ripresa in parte anche nei titoli di testa, molto simili alla fabbrica che sfornava le tavolette tutte uguali di Willy Wonka). Burton è Margaret ma è anche Walter, un autore che conosce la sua arte e che sa anche come venderla, un regista che ha avuto la fortuna di economizzare il suo talento, perché <i>l'arte è moda</i>, ed è forse il motivo per cui al giorno d'oggi molti dicono che Burton sia all'antica o, peggio ancora, la macchietta di se stesso: è semplicemente un regista passato di moda (quella di <i>Nightmare Before Christmas</i> e <i>Batman</i>, quella che ha figliato migliaia di gadget, peluche, giocattoli e anche serie animate), il quale però riesce ancora a pulsare e a trapelare attraverso opere più intime, personali e meno commerciali come questa.</div>
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Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-22136708979195634622015-01-01T16:31:00.000-08:002015-01-01T16:31:21.569-08:00The Imitation Game<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiMVDtFEBVSex3yOHrwgN5SvIxLhFOaeOCJQj4EI5F7V5L3tEqCxPw9b2RhLX0C27O56w8FJKqA49K4F2izPBA1MCQ-2908hB5qFVHLUwNNKO0WysR6KgjaTCEk_W_kGJRrf-chPpBOqX4w/s1600/Imitation+game,+the.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiMVDtFEBVSex3yOHrwgN5SvIxLhFOaeOCJQj4EI5F7V5L3tEqCxPw9b2RhLX0C27O56w8FJKqA49K4F2izPBA1MCQ-2908hB5qFVHLUwNNKO0WysR6KgjaTCEk_W_kGJRrf-chPpBOqX4w/s1600/Imitation+game,+the.jpg" height="320" width="217" /></a></div>
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Si spera sempre che questi biopic siano migliori delle aspettative, perché in periodo di corsa agli Oscar ad ogni cinefilo sale un pochino di puzza sotto il naso. <i>The imitation game</i> si presenta come il classico biopic del classico genio che incredibilmente segna la storia dell'uomo, in questo specifico caso modificando i pronostici della seconda guerra mondiale. In un certo qual modo è così: il film non mostra il suo vero volto da subito, serbando il meglio per il finale, per l'ultima angosciante mezz'ora carica di grande cinema. Nell'attesa possiamo goderci un <b>Benedict Cumberbatch</b> in stato di grazia che interpreta Alan Turing, matematico a cui si deve l'invenzione del moderno computer e che riuscì a decrittare il codice nascosto dietro la terrificante macchina denominata dai nazisti Enigma. Ma la storia della guerra e di come l'Inghilterra favorì la vittoria degli alleati è presto accantonata, perché ad interessare il pubblico è l'uomo dietro la macchina, ovvero Turing, genio incompreso insicuro di sé che nasconde le sue debolezze dietro il suo intelletto, palesandole ogni volta che viene stretto all'angolo da chi non si fida di lui e da chi lo guarda con disprezzo (giustificato, visto il carattere impossibile che il protagonista ha sviluppato nel corso della sua vita). </div>
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Se proprio vogliamo trovare un difetto importante al film è quello di lasciarsi andare troppo alla litania dei flashback, con i quali deve necessariamente farci capire come e perché Turing sia diventato il personaggio che ci viene mostrato sullo schermo; qualche non-detto in più avrebbe gratificato maggiormente gli spettatori più attenti ed esigenti. Ma queste piccole necessità atte a raggiungere un ampio pubblico (indi compresi i membri dell'Academy) gliele si perdonano, vista la seconda parte che viene imbastita, la quale mostra degli uomini obbligati al silenzio, votati all'omertà per evitare di rendere vani i risultati appena raggiunti. Ma non solo: finita la guerra noi siamo lì, con Turing e i suoi scheletri nell'armadio che vengono svelati e messi di fronte ad un giudice, il quale deciderà in maniera obiettiva seguendo la legge dell'epoca. E alla fine, mentre Benedict Cumberbatch si lascerà divorare dagli spasmi farmacologici e <b>Keira Knightley </b>sarà lì a sostenerlo (con qualche frase un po' retorica, certo, ma niente di eccessivamente melenso), noi aspetteremo il suo ultimo sorriso e le luci dello sgabuzzino che si spengono su Christopher, la sua creazione e il suo unico amore, mentre un taglio di montaggio ci farà tornare indietro al giorno in cui la squadra di crittografi capitanata da Turing venne sciolta e i titoli ci spiegheranno che cosa successe al protagonista dopo il momento in cui il film interrompe la sua narrazione cronologica. Forse inizierete a pensare a come sia possibile che l'Inghilterra, una nazione alleata, potenzialmente dalla parte del bene, potesse trattare gli omosessuali in una maniera spietata quasi quanto i nazisti, e forse assocerete il nome di Alan Turing a quel tanto decantato Galileo Galilei, il quale dovette aspettare Giovanni Paolo II per ottenere le scuse della Chiesa, e farete fatica a pensare che, nonostante gli anni di distanza tra il 1642 e il 1954, e nonostante le moderne tecnologie, l'umanità e di conseguenza la società si siano evolute così poco. C'è tanto, in quell'ultima mezzora, su cui riflettere: il mio consiglio è quello di recuperare il film e sorvolare sulle scelte più semplicistiche di <b>Morten Tyldum</b>, regista norvegese scelto per capitanare questa nave apparentemente come tante altre navi ma in realtà piena di tante cose da offrire.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-12177578216507114772014-12-20T15:28:00.000-08:002014-12-20T15:28:49.495-08:00Lo Hobbit - La Battaglia delle Cinque Armate<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjino4d-aXhd-Zh0iB6zvJ8a-263IYBhzj3JN9M-DS882oz8XPdvLOPiWQlMy6y5SztC3L-I3dYBdtQOqk3UuiN_4YH7nY-ZR7X-ZRX8ORWElOoQXMYgf8PHXDAab-SProVSZ77ThYMX0O2/s1600/Hobbit+-+La+battaglia+delle+cinque+armate,+lo.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjino4d-aXhd-Zh0iB6zvJ8a-263IYBhzj3JN9M-DS882oz8XPdvLOPiWQlMy6y5SztC3L-I3dYBdtQOqk3UuiN_4YH7nY-ZR7X-ZRX8ORWElOoQXMYgf8PHXDAab-SProVSZ77ThYMX0O2/s1600/Hobbit+-+La+battaglia+delle+cinque+armate,+lo.jpg" height="320" width="215" /></a></div>
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Viaggiamo per un attimo indietro nel tempo, a quell'ormai lontano 2001, quando <i>La compagnia dell'anello</i> si concludeva con la morte di Boromir per mano di un guerriero Uruk-hai, vendicato immediatamente da Aragorn. Il ramingo, dopo aver infilzato al torace il nemico, si ritrova faccia a faccia con esso, il quale gli ringhia addosso tutta la sua rabbia e il disprezzo che prova nei confronti degli uomini prima di farsi decapitare dall'erede al trono di Gondor. Quella scena era così reale, così vera, così impressionante che ti pare quasi di toccarlo, quell'Uruk, di respirare il fetido puzzo del suo alito. Torniamo ora al nostro 2014, quando <i>Lo hobbit - La battaglia delle cinque armate</i> offre al pubblico una scena simile (ciò che state per leggere contiene qualche spoiler, ma fidatevi, vi svelerò solo l'essenziale e il prevedibile, nulla di sorprendente): Thorin è sopra il suo acerrimo nemico Azog, detto il profanatore, e gli ha appena piantato la sua spada in mezzo al torace, conficcandogliela fino a perforare il ghiaccio su cui è accasciato l'orco il quale, sorpreso di essere stato ucciso, esala il suo ultimo respiro e muore. Niente da fare: nonostante <b>Peter Jackson </b>ci provi con tutte le sue forze, nulla riesce a comparare le emozioni, il realismo, la concretezza della Terra di Mezzo dei primi anni duemila. </div>
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Badate bene, anche questo è un buon film, certo, nulla da togliere, ma queste piccolezze (che per me non sono tali, ma tant'è) impediscono allo spettatore di farsi trascinare all'interno di quel mondo, ricordandogli che comunque è solo un film, che nulla è vero, niente è plausibile, è tutto ricreato e ricostruito (in digitale). A maggior ragione a questo terzo capitolo manca qualcosa di importante, oserei dire fondamentale: il cuore. Senza di esso noi non siamo lì con Bilbo, Gandalf e tutti gli altri personaggi dai nomi facilmente confondibili, non sentiamo quel desiderio di entrare a far parte della storia e non volerne uscire più; alla fine del film vogliamo semplicemente andarcene a casa e ritornare alle nostre cose di tutti i giorni, aspettando che qualche vecchissimo amico venga a farci visita per il nostro compleanno. E così, mentre <i>Il signore degli anelli</i> si concludeva con Frodo che partiva verso un destino ignoto, con Aragorn che coronava non solo se stesso ma anche il suo sogno d'amore, con Sam che tornava a casa non più giardiniere ma padre di famiglia, questa nuova trilogia sceglie una conclusione che ci lascia dell'amaro in bocca, quasi come se anche Jackson guardasse con occhio nostalgico i suoi tre precedenti lavori, come se rimpiangesse di non avere usato tutto quanto il suo estro per riportare in vita un mondo realizzato e creato da lui. In fondo Bilbo è ben contento di tornarsene a casa e ricominciare a litigare con i suoi vicini e parenti più o meno lontani, e noi anche, perché questa nuova Contea non l'abbiamo percepita, non l'abbiamo sognata, non l'abbiamo bramata con ogni fibra del nostro essere. Sono film buoni, certo, ma iniziano e finiscono come ogni cosa e, svogliati come sono, non provano ad offrire neppure una scena atta ad essere ricordata per sempre dai fan. Ed è un gran peccato, se si pensa a quanto tempo abbia realmente sprecato Jackson dietro questo ambizioso, pomposo, lento progetto quasi decennale che stancò perfino <b>Guillermo Del Toro</b> e che trova la sua definitiva conclusione in un film che è più nostalgico dello spettatore stesso, il quale non ricorderà null'altro che il momento finale, quell'unico attimo che lo invoglierà a tornare a casa, prendere in mano il cofanetto de <i>La compagnia dell'anello</i> e rivedere quel film con quei momenti così reali, così veri, così impressionanti che ti pare quasi di toccarla, la Contea. Anche senza 48 o 60 fotogrammi al secondo.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-18477964425198981872014-12-11T03:01:00.000-08:002014-12-11T03:01:07.126-08:00Magic in the Moonlight<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitKqZaSUnK7V-d2-2Kh-Ba1SUqivD8S-JAi6OpNuW3RX4jfnGxBzA-5xhCEw5oo3dJaxDqjSqvLoOvHqdUMZju4G1AcqM_YfodZh7OM8ot3AEZuZSq2I1eKoi2FwAslQfy7FgM4m_2hzRS/s1600/Magic+in+the+Moonlight.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitKqZaSUnK7V-d2-2Kh-Ba1SUqivD8S-JAi6OpNuW3RX4jfnGxBzA-5xhCEw5oo3dJaxDqjSqvLoOvHqdUMZju4G1AcqM_YfodZh7OM8ot3AEZuZSq2I1eKoi2FwAslQfy7FgM4m_2hzRS/s1600/Magic+in+the+Moonlight.jpg" height="320" width="215" /></a>Se per il protagonista del film l'unico superpotere esistente brandisce la falce, per chi scrive l'unica certezza dicembrina è il sedersi in una sala cinematografica e godersi l'annuale prodotto dell'immancabile <b>Woody Allen</b>, regista sempre più bistrattato da un pubblico che gli grida addosso scaduto, venduto e tutte quelle belle parole che finiscono per -uto, non volendo accorgersi di quanto il cinema di Allen degli ultimi anni sia variegato, certo, ed inevitabilmente diverso dalle vecchie fasi che il regista ci ha regalato nel corso della sua carriera, ma allo stesso modo continuo e omogeneo. In <i>Magic in the Moonlight</i>, infatti,<i> </i>torniamo a parlare di magia e di amore, di fede e di scetticismo, di pessimismo e materialismo, di aldilà e romanticismo, con il più abile prestigiatore degli anni '20, <b>Colin Firth</b>, che deve smascherare la più abile finta medium del periodo, <b>Emma Stone</b>. In Firth si insinuerà il dubbio di una vita dopo la morte e di un bisogno di accettare qualcosa di incomprensibile, che non sarà propriamente un eventuale regno dell'oltretomba, alla fine del film. </div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Allen imbastisce una commedia romantica che, non appena prende il via, non cala mai di ritmo e spigliatezza nelle battute, dipingendo personaggi meravigliosi e appassionanti, dall'ego imperturbabile (dal protagonista al suo amico fino alla sua vecchia e saggia zia, che riesce sempre a fargli abbassare la guardia e a farlo tornare un poco umano) o dalla fragilità marcata (quei co-protagonisti che si lasciano ammaliare dalle abili capacità della Stone), tutti che necessitano una sicurezza solida, tangibile, seppur fittizia. Tra alti e bassi di pessimismo, questa volta l'autore statunitense ci regala una commedia in grado di sciogliere anche i cuori più scettici, dove i personaggi si lasciano trasportare dalla magia dell'incredulità e dell'incomprensibile che si palesa di fronte ai loro occhi, scoprendo che c'è sempre bisogno di qualcosa a cui appigliarsi, quel non so che di magico che ci possa rendere felici, la nostra oasi personale all'interno di un deserto vuoto e vacuo che è la vita stessa, un'oasi sempre e comunque tangibile (perché, nonostante la sorpresa di vedere Firth in un momento di preghiera, Allen resta pur sempre ateo), che può essere la città di Parigi (<i>Midnight in Paris</i>), oppure una doccia sopra un palcoscenico di un teatro che ci possa fare sentire a nostro agio (<i>To Rome with love</i>) , o ancora una scappatella extra coniugale (<i>Match point</i>). Debole e traballante oasi, quest'ultima, destinata a finire male per entrambi, come finirà male l'oasi fatta di denaro e preziosi di Cate Blanchett (<i>Blue Jasmine</i>), la quale non uscirà mai completamente dalla sua depressione cronica, probabilmente anche a causa di non aver trovato nessun appiglio adatto a lei. Bisogna dunque cercare un'ancora di salvezza che possa reggere il peso dei nostri problemi e possa salvarci dall'orrore di questa nostra esistenza e, citando uno degli ultimi film del regista, qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia, basta che funzioni.</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/06918910796061371599noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6442515361576557770.post-66873139771545223282014-12-08T02:01:00.000-08:002014-12-08T02:01:43.975-08:00The Counselor - Il Procuratore<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3oVATueJSLEjj9X1mUMSJsqkRZ_WW4LiPh-ESrFqQJLbmHnDtBeWQI4QkJnoDJC2HUQc_T-fOKpzs8tcmvzjjD6J_vbSvmP8RJ3UbBXs-r3qkHFd1d1mERMgjZMpEw2Vd96-tCzyVCD7e/s1600/Counselor,+the.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3oVATueJSLEjj9X1mUMSJsqkRZ_WW4LiPh-ESrFqQJLbmHnDtBeWQI4QkJnoDJC2HUQc_T-fOKpzs8tcmvzjjD6J_vbSvmP8RJ3UbBXs-r3qkHFd1d1mERMgjZMpEw2Vd96-tCzyVCD7e/s1600/Counselor,+the.jpg" height="320" width="216" /></a></div>
C'è qualcosa che scricchiola e stride nell'ultimo film di <b>Ridley Scott</b>, che vorrebbe disperatamente farsi amare dal pubblico - il quale, almeno in parte, l'ha elogiato senza troppi problemi - ma che comunque non riesce ad ingranare in tutti i suoi aspetti. La prima cosa che salta all'occhio, in questo thriller scritto da <b>Cormac McCarthy</b> in persona, è la fantastica fotografia da <b>Dariusz Wolski</b> che dà risalto alle sequenze più importanti del film, come la prima, erotica, ottima scena in cui ci viene presentato il rapporto tra i personaggi di <b>Michael Fassbender </b>(sempre in ottima forma, capace di regalare una performance da brividi, due spanne sopra il resto del cast, forse anche per via della scrittura dei personaggi) e di <b>Penélope Cruz</b>, aprendo il film sulle romantiche e ammiccanti lenzuola bianche che avvolgono i corpi dei due amanti. La storia poi comincia a presentarci un personaggio più fastidioso dell'altro, tutti pronti ad insegnare e spiegare e far capire a Fassbender come funziona questo mondo marcio all'interno del quale si è infilato, con discorsi ai limiti del moralismo (per quanto un criminale possa fare la morale ad un avvocato che cerca soldi facili), i quali annoiano quasi subito per la loro ripetitività, nonostante la messa in scena fotografata da Wolski e le musiche di <b>Daniel Pemberton</b> mantengano alta la curiosità dello spettatore, che spera in un proseguo col botto. <br />
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E invece si resta lì imperterriti ad osservare la caduta nel baratro di un avvocato dalla dubbia moralità che si lascia coinvolgere in un giro sporco, lo vediamo perdere tutto quello che ha di più caro un poco alla volta, lo vediamo circondarsi di personaggi poco raccomandabili ma non lo vediamo mai protagonista vero e unico del film, e forse è proprio questo il problema di <i>The counselor - Il procuratore</i>: c'è un bravissimo Michael Fassbender che piange, trema, suda, si dispera, capisce di essere arrivato ad un punto di non ritorno e vorrebbe maledire il giorno in cui ha fatto certe scelte, ma non si incentra il film su di lui, si decide invece di trasformare il tutto in una storia corale della quale pare interessante scoprire i risvolti di ogni singolo co-protagonista del quale, diciamoci pure la verità, ci interessa ben poco. La crime story, che dovrebbe passare in secondo piano di fronte al dramma che sta vivendo l'avvocato che apre il film sotto quelle bianche, candide, pure e rassicuranti lenzuola, diventa invece il fulcro principale di tutta la narrazione, che si appesantisce di molto quando al centro della scena abbiamo, ad esempio, il solito <b>Brad Pitt</b> che, seppure sia bravo anche lui, non è protagonista di situazioni della stessa importanza di ciò che sta passando il nuovo arrivato, o anche <b>Javier Bardem</b>, eccentrico socio in affari di Fassbender, ma personaggio già navigato, pronto a correre i rischi che sono all'ordine del giorno per uno come lui, affiancato da una <b>Cameron Diaz</b> che, al di là della sua bellezza e dei suoi occhi così accattivanti, non riesce a graffiare come il suo personaggio dovrebbe. Un film incerto, dunque, questo di Ridley Scott, che in alcuni punti riesce a regalare picchi di grande cinema, ma che in altri momenti non sembra nemmeno volercisi avvicinare allo stesso risultato. Ora spetta a voi decidere se quegli attimi di puro genio artistico siano più che sufficienti per una visione.</div>
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